AGOSTINO: De civitate Dei

   
 

Una teologia della storia. Il 24 agosto 410, dopo due anni di assedio, i visigoti guidati da Alarico invasero Roma e la saccheggiarono per tre giorni consecutivi prima di spostarsi verso sud. Era da ottocento anni, dal sacco gallico del 390 a.c., che la città non conosceva uno simile sfregio, destinato ad entrare nell’immaginario collettivo dell’epoca come una catastrofe: per quanto ormai svuotata del suo ruolo politico,Roma rappresentava ancora la continuità di una tradizione più che millenaria e custodiva le vestigia di un passato che sembrava intangibile. E se persino un ‘ciceroniano pentito’ come Girolano affermava che «la fiaccola del mondo s’è spenta e nella rovina di una sola città tutto il genere umano perisce» (In Ezechielem, praefatio I), si può facilmente immaginare il clima di sconcerto che si era diffuso, anche presso molti cristiani (non si dimentichi che a Roma c’erano le reliquie di Pietro e di Paolo), mentre agli occhi dell’élite pagana il fatto doveva apparire come la prova più evidente del fallimento politico-sociale del monoteismo cristiano e della sua morale. È in questo clima che prende forma il De civitate Dei contra paganos, opera in 22 libri scritta da Agostino tra il 412/3 e il 426/7. Nata dall’urgenza dei tempi e dalla necessità di dare una risposta alle accuse dei pagani e di contrastare lo sconcerto dei cristiani, l’opera, più che mera apologia del cristianesimo, finisce per tracciare le linee di una vera e propria teologia della storia, le cui parole d’ordine sono verità, giustizia, amore.

 

Il contenuto dell'opera. Al cospetto del suo magnum opus et arduum (De civ.: prefazione) è lo stesso Agostino, nelle Retractationes (2.43), a fornire indicazioni circa il contenuto del De civitate. L’opera si può dividere in due parti fondamentali: nella prima (I-X), si confuta la pretesa della religione pagana di essere garante di prosperità e fortuna in questa vita (I-V: insufficienza sociale) e di salvezza ultraterrena (VI-X: insufficienza spirituale); nella seconda (XI-XXII), si delineano i tratti contrapposti della civitas terrena e della civitas caelestis: l’origine (XI-XIV), lo sviluppo e il progresso nel tempo (XV-XVIII) e l’esito escatologico (XIX-XXII). Come le due parti sono tra loro strettamente intrecciate, tanto che la prima è la premessa alla seconda, così i destinatari risultano essere sia i pagani sia i cristiani.

 

Un'antitesi mistica... Nel chiudere la rassegna storica delle due città, Agostino fa questa considerazione (De civ. Dei XVIII 54, 2):

 

Ma concludiamo ormai questo libro, dopo aver esposto fin qui e, per quanto sembrava opportuno, dimostrato quale sia l’evoluzione storica delle due città, la celeste e la terrena, commischiate dall’inizio fino alla fine. La terrena ha creato per sé, da ogni provenienza o anche dagli uomini, i falsi dèi che ha voluto, per sottomettersi a loro mediante l’offerta di vittime. Invece quella celeste, che è esule sulla terra, non crea falsi dèi, ma essa è stata creata dal vero Dio ed essa stessa è la sua vera immolazione. Tutte e due però usano ugualmente i beni temporali e sono colpite dai mali con diversa fede, diversa speranza, diverso amore, fino a che siano separate dal giudizio finale e raggiunga ognuna il proprio fine che non ha fine. Del fine di entrambe si parlerà in seguito.  

 

Queste parole consentono di cogliere l’essenza della concezione agostiniana delle due città, da intendersi non tanto in senso socio-politico, quanto piuttosto in senso mistico. La differenza tra la civitas terrena e quella caelestis non è di carattere storico, perché entrambe, essendo tra loro permixtae, sono radicate nella provvisorietà della storia, il che esclude, inoltre, che la civitas caelestis sia il regno dei buoni e dei perfetti. La differenza è invece di status: la città celeste è peregrina sulla terra, cioè possiede la consapevolezza che esiste una dimensione ulteriore, che la sua esistenza (terrena) è anticipo della vera esistenza (celeste), mentre la città terrena è priva di un’apertura metastorica (ecco perché, per i pagani, la fine di Roma coincide con la fine del mondo!).

Ma tra le due vi è anche una contrapposizione socio-religiosa: la civitas caelestis è preceduta da Dio (ed è pellegrina in attesa di essere celeste), la civitas terrena, invece, precede le sue divinità. Come è noto, infatti, la civitas romana si autolegittimava nel culto pubblico celebrando la propria antichità e ponendosi sotto la protezione degli dei, per cui ogni città aveva le sue divinità e il civis romanus coincideva con l’essere religiosus.

 

...un'antitesi etica Come sottolinea Luigi Alici (Introduzione a La Città di Dio, p. 37), «l’opposizione tra le due città non è tanto una opposizione di luoghi, di strutture o di istituzioni temporali, né di entità cosmico-metafisiche, ma soprattutto un’opposizione tra due diversi modi di concepire la vita, l’uno chiuso nell’orgogliosa ed egoistica affermazione di sé, che nel paganesimo cercava una misera copertura religiosa o politica, l’altro aperto nella fede, nella speranza e nell'amore, che in Cristo e nella Chiesa è in grado di ricostituire e di anticipare l’unità della pienezza dei tempi, stringendo in un abbraccio ideale tempo ed eternità, fede e visione, pace terrena e pace celeste».

Pertanto, nella prospettiva del De civitate Dei, lo scontro non è tra Chiesa e Impero: per Agostino, come per altri suoi contemporanei, era pacifico che l’impero avesse una funzione provvidenziale in quanto ad esso si demandavano la sicurezza e l’esercizio del diritto. Non si tratta neppure di uno scontro etnico-religioso tra cristiani e pagani. La vera contrapposizione è piuttosto tra male e bene, tra immanenza e trascendenza, tra esteriorità e interiorità. La civitas caelestis pellegrina sulla terra non ribalta le categorie storiche, culturali e politiche, ma quelle morali, in quanto la potenza cede il posto alla mitezza, la guerra alla pace, la sopraffazione alla giustizia; si chiede, a tal proposito, Agostino: «Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?» («Una volta tolta di mezzo la giustizia, cosa sono i governi se non delle grandi ruberie») (De civ. Dei IV 4).

Se si perde di vista la dimensione mistica ed escatologica della città di Dio e si appiattisce la civitas terrena al livello di pura entità politica, si finisce per non cogliere la specificità della prospettiva agostiniana. Contrariamente alle ricadute che ebbe una certa lettura del De civitate Dei (il cosiddetto ‘agostinismo politico’), Agostino non ha mai pensato che la città celeste (non coincidente con la chiesa) dovesse imporre le proprie leggi alla città terrena (non identificabile con lo stato), ma ha voluto ricordare ai cristiani che la loro vera patria non è il mondo, nel quale vivono come in esilio.