Cicerone, Pro Flacco 66-69

     
  [66] Sequitur auri illa invidia Iudaici. Hoc nimirum est illud quod non longe a gradibus Aureliis haec causa dicitur. Ob hoc crimen hic locus abs te, Laeli, atque illa turba quaesita est; scis quanta sit manus, quanta concordia, quantum valeat in contionibus. Sic submissa voce agam tantum ut iudices audiant; neque enim desunt qui istos in me atque in optimum quemque incitent; quos ego, quo id facilius faciant, non adiuvabo.

[67] Cum aurum Iudaeorum nomine quotannis ex Italia et ex omnibus nostris provinciis Hierosolymam exportari soleret, Flaccus sanxit edicto ne ex Asia exportari liceret. Quis est, iudices, qui hoc non vere laudare possit? Exportari aurum non oportere cum saepe antea senatus tum me consule gravissime iudicavit. Huic autem barbarae superstitioni resistere severitatis, multitudinem Iudaeorum flagrantem non numquam in contionibus pro re publica contemnere gravitatis summae fuit. At Cn. Pompeius captis Hierosolymis victor ex illo fano nihil attigit.

 

[68] In primis hoc, ut multa alia, sapienter; in tam suspiciosa ac maledica civitate locum sermoni obtrectatorum non reliquit. Non enim credo religionem et Iudaeorum et hostium impedimento praestantissimo imperatori, sed pudorem fuisse. Vbi igitur crimen est, quoniam quidem furtum nusquam reprehendis, edictum probas, iudicatum fateris, quaesitum et prolatum palam non negas, actum esse per viros primarios res ipsa declarat? Apameae manifesto comprehensum ante pedes praetoris in foro expensum est auri pondo c paulo minus per Sex. Caesium, equitem Romanum, castissimum hominem atque integerrimum, Laodiceae xx pondo paulo amplius per hunc L. Peducaeum, iudicem nostrum, Adramytii <c> per Cn. Domitium legatum, Pergami non multum.

[69] Auri ratio constat, aurum in aerario est; furtum non reprehenditur, invidia quaeritur; a iudicibus oratio avertitur, vox in coronam turbamque effunditur. Sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis. Stantibus Hierosolymis pacatisque Iudaeis tamen istorum religio sacrorum a splendore huius imperi, gravitate nominis nostri, maiorum institutis abhorrebat; nunc vero hoc magis, quod illa gens quid de nostro imperio sentiret ostendit armis; quam cara dis immortalibus esset docuit, quod est victa, quod elocata, quod serva facta.

 

 

 

    [66] C’è poi poi la questione dell'oro degli ebrei, e quest'imputazione così odiosa. Ecco, certamente, perché questa causa è perorata presso i gradini di Aurelio; è per questo capo di accusa, Lelio, che avete scelto questo luogo e questa folla di ebrei che li circondano. Sapete quale è il loro numero, la loro unione, il loro potere nelle nostre assemblee. Parlerò a voce bassa, in modo da essere inteso soltanto dai giudici; non mancano infatti gli uomini che possano incitare questa folla contro di me e contro tutti i migliori, ma io no li aiuterò rendendo loro il compito più facile.

[67] Era costume ogni anno inviare dell’oro a Gerusalemme a nome degli ebrei dall’Italia e da tutte le nostre province, ma Flacco emanò un editto che proi­biva questa esportazione dalla provincia d’Asia. Chi c’è, giudici, che non può sinceramente lodare questa misura? Il senato severamente vietò l’esportazio­ne di oro in un numero considerevole di precedenti occasioni, soprattutto durante il mio consolato. Opporsi a questa barbara superstizione fu un atto di fermezza, e sfidare nel pubblico interesse la folla degli ebrei che talvolta in­fiamma le nostre pubbliche adunanze fu un atto di somma responsabilità. Ma Cn. Pompeo, dopo aver conquistato Gerusalemme, da vincitore non toccò nulla in quel tempio.

[68] Da parte sua, tra mille altre, è una caratteristica di prudenza, di non avere dato luogo a discorsi calunniosi in una città così sospettosa ed anche maldicente. Poiché non è, credo, la religione degli ebrei, di un popolo ostile, ma la sua moderazione, che ha trattenuto questo generale famoso. Dov’è dunque l'offesa? Non ci rimproverate alcun furto; non potete condannare l'ordinanza di Flacco; voi convenite che il senato si è pronunciato, che una sentenza è stata pronunciata, che quest'oro è stato ricercato e mostrato pubblicamente; i fatti stessi provano che questo incarico è stato ricoperto da uomini di prima grandezza. Nella città di Apamea, l'oro è stato preso sotto gli occhi di tutti, e un po’ meno di cento libbre è stato pesato nel posto pubblico, ai piedi del pretore, da parte di Sext. Cesio, cavaliere romano, uomo giusto e disinteressato. A Laodicea, L. Peduceo, uno dei nostri giudici, ne ha pesato un po’ più di venti libbre; anche a Adramitto, Cn. Domizio, legato della provincia, ha fatto quest'esame; se ne è preso molto poco a Pergamo.

[69] Infine, si sa che fine ha fatto l'oro: è stato versato nel tesoro pubblico. Non ci si rimprovera un furto, ma si cerca di renderci odiosi; ci si gira verso il popolo, si parla con affettazione dalla parte della folla che circonda il tribunale. Ogni stato, Lelio, ha la propria religione, e noi abbiamo la nostra. Anche quando Gerusalemme era ancora in piedi e gli ebrei in pace con noi, la pratica dei loro riti sacri era incompatibile con la gloria del nostro impero, con la dignità del nostro nome e con le istituzio­ni dei nostri antenati; e ora che il popolo ebraico ha mostrato con una ribellione armata quali sono i suoi sentimenti verso il no­stro dominio, ciò è ancora più vero; quanto caro esso fosse agli dei immorta­li è stato mostrato dal fatto che è stato conquistato, appaltato agli esattori delle imposte, e schiavizzato.