1. BREVE STORIA DELL’ANTICO ISRAELE E DEGLI EBREI

 
     
 

Gli Ebrei abitavano la terra di Canaan, confinante a nord con la catena del Libano e dell’Antilibano, a sud con il deserto del Sinai, a est con il deserto Arabico, a ovest con il Mediterraneo. In origine la terra di Canaan fu abitata dai Cananei, popolo etnicamente affine ai Fenici. Verso il 1200 a.C. fu occupata lungo il litorale dai Filistei, uno dei popoli del mare, di origine indoeuropea. Dai Filistei deriva alla terra di Canaan il nome Palestina.

La regione più fertile della Palestina era la Galilea, e si estendeva dalle montagne del Libano a sud fino al monte Tabor. Nel centro della Palestina era la Samaria, a sud la Giudea, arida e dirupata, con Betlemme e con la capitale Gerusalemme. A oriente era l’attuale Transgiordania, che gli Ebrei chiamavano Gilead. La Palestina ebbe una grande importanza storica perché diede origine all’ebraismo e al cristianesimo, inoltre essa era l’unica via terrestre praticabile tra l’Egitto, la Siria e la Mesopotamia: fondamentale fu quindi il suo ruolo nell’emigrazione e nel commercio.

 
     
  1. L’età dei Patriarchi (2100-1600)  
 
Secondo quanto racconta la Bibbia, nel 2100 a.C. il patriarca Abramo viveva con la sua gente a Ur, nella Caldea meridionale. Un giorno ricevette da Dio l’ordine di abbandonare la Caldea e di guidare il suo popolo fino alla terra di Canaan.
 

Ad Abramo successe il figlio Isacco, a Isacco successe Giacobbe (chiamato poi Israele), il quale ebbe 12 figli, ma il suo preferito era Giuseppe. I fratelli erano gelosi di Giuseppe e un giorno decisero di venderlo ad alcuni mercanti che lo condussero in Egitto. Grazie alla sua intelligenza e saggezza Giuseppe divenne ministro del faraone. La Palestina dovette affrontare delle gravi carestie così i fratelli vennero in Egitto a far provviste. Giuseppe li riconobbe e ottenne dal Faraone il permesso di trasferire il popolo ebreo in Egitto. Il popolo ebraico rimase in Egitto dal 1650 al 1300 circa.

 

 

 

     
  2. L’esodo dall’Egitto (1300-1250 circa)  
 
 

Gli Ebrei prosperarono in Egitto, ma non si mescolarono mai agli Egiziani: conservarono lingua, religione, cultura. Dopo la cacciata degli Hyksos gli Egiziani estesero il loro odio nei confronti degli stranieri agli Ebrei, che non si erano mai integrati, e li tennero in Egitto come schiavi, sottoponendoli a lavori molto duri.

 

Gli Ebrei furono liberati dall’oppressione egiziana da Mosé ("salvato dalle acque"), il quale, secondo il racconto biblico, aveva ricevuto da Dio l’incarico di riportare il popolo eletto nella Terra Promessa (la Palestina). Racconta infatti la Bibbia che il Faraone, vedendo che gli Ebrei aumentavano in numero e in potenza malgrado i maltrattamenti, aveva ordinato che venissero uccisi tutti i neonati maschi dei discendenti di Giacobbe. Mosé fu sottratto a questo tragico destino dalla madre che lo depose in un canestro sulla riva del Nilo in un posto dove soleva bagnarsi la figlia del Faraone. Quest’ultima, sentendo i pianti del fanciullo lo fece portare nel palazzo reale dove fu allevato e istruito.

Dopo diverse peripezie raccontate nella Bibbia Mosè riuscì a guidare gli Ebrei fuori dall’Egitto e ad attraversare il mar Rosso. Il popolo non raggiunse però subito la Terra Promessa, ma vagò per 40 anni nel deserto. Durante la peregrinazione nel deserto Mosé, secondo la Bibbia, ricevette le Tavole della Legge (I dieci comandamenti) da Dio sul monte Sinai.

 
     
  3. Gli Ebrei in Palestina (1250-1230 circa)  
 

Mosé morì prima di raggiungere la Terra Promessa. Il comando fu preso da Giosué, il quale, attraversato il Giordano, riuscì ad espugnare la città di Gerico e ad occupare gran parte della Palestina dopo una serie di battaglie contro i Cananei. Il territorio fu diviso tra undici tribù di Israele, che era composto da dodici tribù. La dodicesima, la tribù di Levi, da cui erano tratti i sacerdoti, fu esclusa da ogni proprietà e sarebbe vissuta disseminata tra le altre dalle quali avrebbe ricevuto la decima parte dei prodotti dell’agricoltura. Alla morte di Giosuè le dodici tribù ripresero la loro autonomia e si governarono da sole conservando soltanto legami religiosi tra loro.

I Giudici (1230-1020). Dovendo però lottare duramente contro i popoli confinanti avevano bisogno di una maggiore unità: quindi nei momenti di maggiore pericolo sceglievano dei capi militari e politici detti Giudici, i quali riportarono diverse vittorie contro i nemici senza mai riuscire a batterli definitivamente. Tra i giudici probabilmente si ricorda di più Sansone, celebre per la sua forza straordinaria e per la celebre storia d’amore con Dalila che lo tradì rubandogli il segreto della sua forza.

 

 
 
 

La monarchia (1020-922). La minaccia dei popoli confinanti si faceva sempre più pericolosa e pressante: fu quindi necessario costituirsi in monarchia.

La monarchia acquistò fin dall’inizio carattere sacro perché Samuele, ultimo dei giudici e sommo sacerdote, consacrò Saul (10020-1000) su indicazione divina. Saul sconfisse i Filistei e altri popoli nemici in diverse battaglie, ma sconfitto dai Filistei presso il monte Gilboa si uccise sul campo di battaglia.

Successore di Saul fu Davide, suo genero, che Saul aveva perseguitato perché roso dall’invidia a causa del suo valore in guerra. Davide fu il più grande tra i re d’Israele. Si fece notare per il suo valore quando, semplice pastorello, sconfisse e uccise il gigante Golia, campione dei Filistei, armato di una semplice fionda. Davide sconfisse definitivamente i Filistei e gli altri nemici d’Israele e stendendo i confini del regno fino alla Siria a nord, l’Eufrate a est e il mar Rosso a sud. Conquistò Gerusalemme e ne fece la capitale del regno, nonché centro politico e religioso del suo popolo. Approfittando del suo immenso prestigio limitò molto l’autonomia delle tribù accentrando i poteri nelle mani del re. Davide fu grande poeta e musicista; di lui rimangono nella Bibbia molti inni religiosi (i Salmi) cantati dai sacerdoti e dal popoli in onore di Dio.

Grande e famoso fu anche Salomone, (961-922) figlio di Davide, il quale si dedicò a dare al suo popolo prosperità e splendide opere edilizie. Salomone protesse gli artisti, si fece costruire una magnifica reggia nella quale furono impiegati anche artigiani fenici, strinse relazioni politiche e commerciali con gli Egiziani e con la favolosa regina di Saba che si mosse dal suo regno lontano per conoscere Salomone e la sua sapienza. Salomone, divenuto leggendario per la sua sapienza, scrisse anche tre libri sacri: I Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici.

 
 

Come spesso succede nella storia dei popoli il punto più alto coincide con l’inizio della decadenza: i forti tributi imposti per la costruzione di edifici pubblici e per il lusso della corte provocarono un gran malcontento tra la gente. In seguito a una grande insurrezione ben dieci tribù si staccarono dal regno scegliendo come capo Geroboamo (figlio di Salomone).

Si formarono così due regni: a Nord il regno d’Israele (922-586), formato dalle dieci tribù secessioniste, con capitale Samaria; a sud il regno di Giuda, formato dalla tribù di Saul e dalla tribù di Davide, con capitale Gerusalemme.

Approfittarono di questa divisione e del conseguente indebolimento gli Assiri a est e gli Egiziani a sud. Il regno d’Israele fu maledetto dai profeti. La sua storia fu caratterizzata da molte discordie interne e terminò sotto il re Sargon II che deportò gran parte del popolo in Assiria. Dopo la fine del regno d’Israele gli unici Ebrei superstiti (non dispersi in mezzo agli altri popoli) furono quelli del regno di Giuda; per questo si suole definirli, da quel momento in poi, anche Giudei.

Il cosiddetto Cilindro di Ciro, che riporta un elenco dei popoli liberati (non menziona però gli ebrei)

British Museum, London

 

Il Regno di Giuda durò un secolo in più (586), cadde sotto la conquista babilonese del re Nabucodonosor e gran parte della popolazione fu deportata in Babilonia (esilio babilonese). Durante i combattimenti tra Babilonesi ed Ebrei fu distrutta la città di Gerusalemme. Nel 538, il re di Persia Ciro il Grande, conquistata Babilonia, autorizza il ritorno degli ebrei in Palestina e la ricostruzione del Tempio, che verrà detto «secondo Tempio» e sarà consacrata nel 515. La Giudea rimane provincia dell’impero persiano godendo però di una certa autonomia in base alla quale il vertice dell’apparato amministrativo e religioso è nelle mani del sommo sacerdote, affiancato da un consiglio degli anziani detto «sinedrio»

 
     
 

4. Il periodo ellenistico

 
 

La conquista della Persia da parte di Alessandro, se da una parte eliminò il tradi­zionale nemico dei Greci, dall'altra introdusse una frattura epocale nella storia e nella cultura greca: l'avvento dell'età ellenistica, infatti, sostituì alla chiusura del­la polis un “colonialismo” greco-macedone. Anche se non sono necessariamente attendibili le cifre che parlano di 100.000 prigionieri di guerra portati in Palestina da Tolomeo I e della presenza di un mi­lione di ebrei in Egitto un paio di secoli dopo, certo è che l'età ellenistica doveva avere enormemente amplificato quel fenomeno noto come diaspora, vale a dire la «dispersione» degli ebrei. Dopo una prima diaspora già iniziata al tempo della cattività babilonese, por la diaspora di età ellenistica fu fondamentale la fonda­zione di Alessandria d'Egitto, che attirò molti giudei palestinesi in quanto gode­vano gli stessi diritti concessi alla parte greca della popolazione.

 
     
 

5. La dominazione siriaca

 
 
 

Già contesa da Tolomei e Seleucidi dopo la morte di Alessandro Magno, la terra d'Israele passò sotto il dominio della Siria a partire dal 200 a.C. La dominazione del re Antioco III (223-187 a.C.) fu favorevole alla popolazione ebraica contri­buendo finanziariamente anche alle pratiche del culto e all'economia del Tempio, secondo un'usanza che risaliva all'epoca della dominazione persiana e a un de­creto di Dario del 515 a.C..

Ma dopo la sconfitta subita a Magnesia (189 a.C.) per mano dei romani, Antioco si vide costretto a inasprire il prelievo fiscale in tutte le sue terre. Con il figlio Seleuco, poi, e soprattutto con Antioco IV Epìfane (175-164 a.C.) prese il via un processo di ellenizzazione forzata destinato ad assumere gravi risvolti anche perché esso nascondeva la volontà di impadronirsi dei beni e delle finanze locali. Tra il 168 e il 166 a.C. nel Tempio di Gerusalemme fu introdotto il culto di Zeus Olimpio, il sacro recinto fu profanato, pratiche rituali come la circoncisione e l'osservanza del sabato furono vietate.

 
     
  6. La rivolta dei Maccabei e il trattato di alleanza con Roma  
 

Gerusalemme oppose un netto rifiuto all'ellenismo in nome della propria fedeltà al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il sacerdote Mattatia diede inizio alla rivolta rifiutandosi di sacrificare agli idoli e fuggì sui monti raccogliendo schiere dei cosiddetti hassidìm («i pii»). Seguì una guerra santa condotta vittoriosamente in forma di guerriglia da Giuda, soprannominato Maccabeo («Martello»), che con le sue bande riuscì ad aprirsi la strada verso Gerusalemme, dove nel 164 a.C. purificò e restaurò il Tempio. A Giuda, caduto in combattimento nel 160, successero rispettivamente i fratelli Gionata (160-143 a.C.) e Simone (143-134 a.C.), la cui lotta mirava a conse­guire l'indipendenza politica dopo quella religiosa.

In questa guerra combattuta per la religione e per l'indipendenza, nel 161 Giuda Maccabeo stipulò con Roma un trattato che assicurava assistenza militare alla Giudea in caso di una nuova aggressione da parte siriana, che infatti si verificò nel 135, quando il re di Siria Antioco VII cinse d’assedio Gerusalemme. La situazione fu risolta grazie all’intervento diplomatico di Roma, che ancora una volta approfittava dei conflitti locali per consolidare la propria presenza nello scacchiere orientale.

 
     
  7. La dinastia degli Asmonei e l’intervento di Roma  
 

La rivolta dei maccabei era stata una lotta per l’indipendenza; ma poiché in quel II secolo a.C. l’indipendenza si poteva ottenere solo con l’aiuto di Roma, questa lotta significò con il passare degli anni la riduzione della Giudea a stato vassallo di Roma.

Fino al 141 una guarnigione siriaca resta nella cittadella di Gerusalemme (la cosiddetta Akra) per proteggere quegli ebrei che avevano accettato l’influenza dei seleucidi e lo stile di vita greco. Ma già l’anno dopo, nel 140, una grande assemblea pubblica aveva proclamato Simone etnarca ("comandante del popolo", cioè governatore) e sommo sacerdote. In seguito queste cariche furono dichiarate ereditarie dando così inizio alla dinastia degli Asmonei, che in seguito assunsero il titolo di re e durarono al potere fino all’invasione della Giudea da parte di Pompeo nel 63 a. C.

Sotto i dinasti asmonei (Giovanni Ircano, figlio di Simone, che regnò dal 134 al 104; Aristobulo I, che fu il primo ad assumere ufficialmente il titolo di re, dal 104 al 103; Alessandro Ianneo, che regnò dal 103 al 77 con la moglie Alessandra Salome, la quale poi rimase sola al potere dal 76 al 67; i figli Ircano II e Aristobulo II che con le loro lotte per la successione sollecitarono l’intervento di Pompeo e la conquista romana della Giudea nel 63 a. C.) il popolo giudaico poté godere un periodo di relativo benessere approfittando del declino del regno seleucide. Il paese si allargò oltre i confini della Giudea propriamente detta, ma fu turbato da conflitti interni tra la classe sacerdotale aristocratica dei sadducei, favorevole alla congiunzione tra il potere religioso e quello politico, e quella dei farisei, avversari del potere monarchico, continuatori dei pii hassidìm, dediti allo studio della Legge e fautori di un messianesimo intinto di rivendicazioni sociali. Nell’88 una rivolta di farisei indusse Alessandro Ianneo alla fuga; il suo rientro fu seguito da un massacro con oltre 50000 morti e migliaia di esiliati. La setta più rigorista tra tutte, quella degli esseni, si ritirava invece nella comunità monastica di Qumran, in rocce presso il Mar Morto, dedicandosi a rigide pratiche ascetiche.

La debole monarchia degli Asmonei, funestata da intrighi familiari e turbolenze civili, non riuscì a fare del paese uno stato ebraico, ma un regno di tipo greco-ellenistico, assai simile a quello di Siria. E della Siria fece la medesima fine: la lotta per la successione tra gli eredi asmonei Aristobulo II e Ircano II finì per sollecitare l’intervento di Pompeo, che già si trovava in Oriente nell’ambito della terza guerra mitridatica e aveva invaso la Siria trasformandola in provincia romana e stabilendo la fine della monarchia dei seleucidi. Pompeo occupò Gerusalemme e irruppe nel Tempio facendo strage di nemici ma astenendosi dal toccare alcunché: gli bastava aver affermato il controllo di Roma in terra giudea.

 
 
     
  8. L'occupazione della Giudea da parte di Pompeo  
 

Nel 64, Pompeo conquista la Giudea e Gerusalemme, inserendosi nella contesa tra Ircano e Aristobulo. Dal momento che le mediazioni con i suoi legati erano fallite, Pompeo interviene personalmente, rendendo tributaria la Giudea e lasciando a Ircano non il regno ma solo il sommo sacerdozio; con tale comportamento egli accoglie le richieste di una delegazione di giudei che volevano fosse ripristinato l'antico regime teocratico, eliminando la monarchia degli Asmonei (illegale in quanto non di discendenza davidica). Il regime asmoneo era in crisi da tempo: l'equilibrio tra potere spirituale e potere temporale del tempo di Simone si era spezzato quando gli Asmonei avevano assunto il titolo di re. Pompeo entra nel santuario fino al Santo dei Santi, senza però toccare niente del tesoro e degli arredi sacri. Tuttavia il suo atto rappresentò una profanazione per le coscienze religiose dei giudei.

 
     
  9. Il regno di Erode il Grande  
 

Nel 40 a.C., quando i Parti invadono la Giudea, Erode si rifugia a Roma, dove è sostenuto grazie ai legami di suo padre con Cesare e Marco Antonio; e qui, su proposta di quest’ultimo, il senato lo nomina re di Giudea, dal momento che è necessario un uomo forte da opporre alla minaccia dei Parti (eterni nemici di Roma). Tornato in patria, dopo la ritirata dei parti, riconquista progressivamente tutto il territorio e stringe d’assedio Gerusalemme; infine nel 37 prende d’assalto la città, elimina Antigono e unifica il regno.

Erode regna dal 37 al 4 a.C., e per lungo tempo soffoca ogni tentativo di ribellione. L’immagine più diffusa di questo re è quella che ci viene fornita dal secondo capitolo del Vangelo di Matteo: astuto, subdolo e crudele. Questa descrizione è probabilmente reale, ma, in ogni caso, egli non si discosta di molto dalla media comportamentale dei dinasti ellenistici. Erode è tra l’altro un ammiratore della cultura ellenistica, che cerca di promuovere in ogni modo: incoraggia la diffusione di culti pagani; organizza giochi e gare atletiche; costruisce città secondo criteri urbanistici ellenistici.

I primi a opporsi sono i farisei, ma vere e proprie resistenze iniziano a manifestarsi solo verso la fine del suo regno. Il primo episodio si verifica nel 7/6 a.C., è il rifiuto da parte di seimila farisei a un giuramento di fedeltà preteso da Erode per sé e per Augusto. Il secondo è l’abbattimento, a seguito della falsa notizia della sua morte, di un’aquila d’oro fatta collocare dal re sopra la porta del tempio. Entrambe queste iniziative vengono duramente punite dal re. Dopo la sua morte, i tumulti non cessano.

Il testamento di Erode prevedeva la spartizione del regno tra il figlio Archelao, al quale vanno la Giudea, la Samaria e l’Idumea, la sorella Salome, che ottiene tre città, e gli altri figli del re: Antipa e Filippo.

 
     
  10. La prima rivolta giudaica (66-73 d.C.)  
 

All’inizio del 66 d.C. le tensioni etniche all’interno delle città portarono allo scontro fisico tra greci e ebrei di Cesarea: il procuratore romano Gessio Floro scese in campo prendendo le parti dei greci e aggravò la sua impopolarità prendendo settanta talenti "per Cesare" dalle casse del Tempio di Gerusalemme. Di qui una serie di sommosse e contestazioni nella capitale stessa per cui il procuratore, entrato nella città in armi, la mise in buona parte sottosopra per scoprirne gli autori e dopo continue umiliazioni e costrizioni la rabbia dei facinorosi si rivelò così violenta da costringerlo a fuggire dalla città e a rifugiarsi a Cesarea.

A questo punto i sacerdoti del Tempio presero una decisione che dal punto di vista romano non poteva che sembrare un’aperta ribellione: deliberarono infatti di sospendere i sacrifici quotidiani tradizionalmente offerti in onore dell’imperatore. Di fronte all’inefficienza di Floro e dei suoi si mosse Cestio Gallo, il legato della Siria, e partì da Antiochia con una grande armata che tuttavia fu sconfitta una prima volta quando si avvicinava alla città e poi quando, spinto dalla mancanza di viveri, si ritirava verso la costa.

Man mano che la tattica del terrore romana, condotta, in zone anche lontane da Gerusalemme, con l’intento di intimidire i ribelli e spingerli alla sottomissione, induceva tutta la nazione alla rivolta, altri capi politici, provenienti dalla Galilea e dall’Idumea, che fino ad allora non si erano curati di acquisire del potere nella capitale, cominciavano ad immischiarsi nella politica della città.

Gli Ebrei avevano buone ragioni per sperare che i Romani non avrebbero fatto uso di tutta la loro forza per venire a capo della ribellione: c’era la consistente possibilità che i Parti potessero sfruttare ogni indebolimento di quel fronte e, d’altronde, i Romani sapevano bene che, dopo l’insuccesso di Cestio Gallo, prendere Gerusalemme non sarebbe stata impresa breve o facile, tant’è che durò dal 67 al 70 d.C.. Posti di fronte al pericolo di rimanere invischiati in una guerriglia sulle colline della Giudea, essi avrebbero potuto preferire la ricerca di un accordo con i ribelli e, in ogni caso, una Giudea indipendente ma tagliata fuori dal Mediterraneo non avrebbe rappresentato una minaccia per l’Impero.

Di sicuro i ribelli non si aspettavano il disastro: ancora nel 70 d.C. un assedio efficace sembrava impossibile e, se le cospicue riserve di cibo fossero state attentamente razionate, la popolazione avrebbe avuto di che mangiare per anni. Gli assedianti invece avrebbero sofferto della mancanza d’acqua e tanto meno nel 66 d.C. nessuno avrebbe ragionevolmente previsto la tenacia e lo sprezzo per le vite dei suoi soldati con cui Tito prese la città, assalendola di petto.

L’ottimismo degli Ebrei riguardo all’esito della guerra è comprovato dal fatto che prima che gli eventi precipitassero, lo Stato ebraico funzionava come se fosse destinato a durare, coniava perfino monete proprie di qualità impressionante. La miseria in effetti si poteva sentire, poiché la maggior parte delle energie veniva dedicata al perfezionamento dei preparativi militari come il rafforzamento della cinta muraria, mentre, cosa più importante di tutte, il Tempio continuò ininterrottamente le sue funzioni fino agli ultimissimi giorni della guerra.

Per evitare uno scontro diretto la cui potenza d’urto poteva essere incalcolabile, i Romani inizialmente scelsero la tecnica del terrore: comportava il massacro deliberato, la deportazione in schiavitù e la distruzione di parte della popolazione nelle fasi iniziali della guerra con lo scopo di atterrire gli avversari e indurli alla resa.

 

Le lotte per il potere interne alla città continuarono a minare l’ordine pubblico e l’efficienza nelle operazioni militari finché, nel 70 d.C., esse cominciarono a sembrare stupide diversioni dal compito principale, quello di difendere la città dall’assalto romano: solo quelli sospettati di essere in procinto di defezionare correvano dei rischi, mentre i complotti politici cessarono completamente. Nei pochi mesi che trascorsero da questa unificazione al crollo finale dello Stato, la rivalità tra fazioni assunse un nuovo aspetto: non più armati l’uno contro l’altro, nelle battaglie sempre più disperate contro le forze di Tito, i contingenti ebraici mantenevano identità separate, gareggiando tra loro per l’eroica difesa della nazione.

Dopo la vittoria del 70 d.C. la classe dirigente ebraica fu consegnata all’oblio ed il culto del Tempio fu interrotto per sempre; molti ricchi latifondisti furono gettati in prigione, venduti in schiavitù o messi a morte; i sacerdoti che si arresero quando il Tempio era già in fiamme vennero uccisi perché, come ebbe a dire Tito, era giusto che facessero la stessa fine del loro santuario.

I Romani posero fine ad ogni ulteriore collaborazione con la classe dirigente della Giudea. La sconfitta totale dello stato ebraico e la sua distruzione furono sottolineate dall’emissione di monete recanti iscrizioni greche sulla presa della Giudea e raffigurazioni di prigionieri prostrati mentre venivano condotti in catene in Palestina sotto il principato di Tito. Per decretare l’estinzione dello Stato ebraico in quanto comunità religiosa, l’Imperatore decretò una tassa annuale di due dracme pro capite da pagarsi, al posto del tributo del Tempio, a Roma in onore di Giove Capitolino.

 
     
  11. La seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.)  
 

È l’ultima grande rivolta antiromana e ha come teatro la Palestina. Essa scoppia come conseguenza di due iniziative prese da Adriano: il divieto di circoncisione, e il progetto di costruire una nuova città, con il nome di Aelia Capitolina, sulle rovine di Gerusalemme. Data la tolleranza che contraddistingue questo sovrano, è probabile che l’iniziativa non fosse specificatamente antigiudaica, ma solo volta all’eliminazione di un costume considerato barbarico; ciò nonostante è naturale che il popolo giudaico sia rimasto sconvolto da una proibizione improvvisa e senza motivo. Lo stesso vale per la costruzione della città: sebbene le intenzioni di Adriano non fossero provocatorie, ma solo di restaurazione, secondo criteri urbanistici ellenistico-romani, questo atto viene considerato sacrilego. Così anche Adriano, al pari di Antioco IV e Caligola, rappresenta l'ennesimo persecutore del culto e delle tradizioni religioso-culturali.

La rivolta scoppia all'improvviso, ma organizzata accuratamente; i ribelli, guidati da Simone bar Kochba, esercitano un'attività di guerriglia evitando scontri in campo aperto con i nemici, il che consente loro di infliggere parecchi danni ai romani. Inoltre le prime vittorie dei rivoltosi sono probabilmente dovute all'incapacità strategica di Q. Tineio Rufo, governatore della provincia. Così Adriano decide di affidare il comando a uno dei suoi migliori generali, Sesto Giulio Severo; il quale sceglie di tagliare i rifornimenti ai nemici, piuttosto che prestare il fianco alle imboscate.

La battaglia decisiva si svolge nell'estate del 135 intorno alla roccaforte di Bether, vicino a Gerusalemme, e in essa muore lo stesso Simone bar Kochba. Questa rivolta assume nel suo corso un risvolto messianico; infatti il nome di Simone era originariamente bar Kosiba, ma durante la rivolta assume quello di bar Kochba, cioè "figlio della stella", con chiaro riferimento all'astro messianico evocato in una famosa profezia del libro dei Numeri (24, 17). Tale investitura messianica è utilizzata da Simone come forte strumento di propaganda: egli assume il titolo di principe d'Israele. Egli ha buon seguito soprattutto negli strati medio - bassi della popolazione, ma anche un cospicuo numero di rabbi appoggia la sua causa. Tuttavia la maggior parte di loro non si schiera con lui, ma anzi ne storpia il nome in bar Koziba, cioè "figlio della menzogna". Anche in tutta la storiografia successiva questo personaggio viene descritto con tratti grotteschi, e sotto una luce negativa, quasi a giustificare la punizione inflitta a tutti i giudei con la sconfitta.

La repressione è quasi definitiva: tra uccisi, schiavi e deportati non rimangono più ebrei a Gerusalemme, e ben pochi in tutta la Palestina. Si tratta della cosiddetta Diaspora, destinata a diventare una parola-chiave nel lessico ebraico, che significa letteralmente "dispersione", o anche "disseminazione". Dopo la vittoria, Adriano porta a compimento le modifiche che aveva programmato: Gerusalemme viene trasformata in Aelia Capitolina, i nuovi coloni subentrano ai giudei e con loro fanno ingresso nella città anche gli dei capitolni.

Con il successore di Adriano, Antonino Pio, la tensione diminuisce parzialmente, successivamente Severo e Caracalla concedono nuovi privilegi ai giudei, e la benevola disposizione di Eliogabalo e Alessandro Severo verso questo popolo è attestata da molte fonti; tuttavia bisogna aspettare un secolo e mezzo prima che Costantino permetta ai giudei di tornare a Gerusalemme, per pregare sul luogo del santuario nel giorno dell'anniversario della distruzione del tempio da parte di Tito.

 
 

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