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Cesare Pavese: la realtà in forma di mito

(tratto da: G.M. Anselmi - G. Fenocchio, Tempi e immagini della letteratura, vol. 6: Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 567-570) 

1. Dall'autobiografia al simbolo

L’incontro con gli scrittori americani. Dalla fine degli anni venti il tirocinio letterario di Pavese si svolge traducendo alcuni capolavori della moderna letteratura inglese e americana: le opere di Sinclair Lewis, Moby Dick di Herman Melville, Riso nero di Sherwood Anderson, Dedalus di James Joyce, Il 42° parallelo di John Dos Passos. Il giovane Pavese, come ha scritto Calvino, scopre così «una letteratura legata al fare degli uomini, alla pesca delle balene o ai campi di granturco o alle città industriali, creando miti nuovi della vita moderna che avevano la forza di simboli primordiali della coscienza, creando dalla lingua parlata un nuovo linguaggio poetico tutto cose». La letteratura d'oltreoceano gli si presenta come un «grande laboratorio», dove ciò che conta è «creare un gusto, uno stile, un mondo moderni, un nuovo linguaggio, materiale e simbolico», in consonanza con la realtà contemporanea. La cultura americana, scrive Pavese, «ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stes­so dramma. Ci mostrò una lotta accanita, consapevole, incessante, per dare un nome, un ordine alle nuo­ve realtà e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare a un mondo vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell'uomo». Come suggerisce oggi il critico Guido Gugliel­mi, l'ambizione di Pavese, alimentata dal confronto con gli scrittori americani, è quella di fare della pro­pria terra d'origine (le colline piemontesi delle Langhe) una metafora del mondo, in cui ogni elemento lo­cale acquisti un significato simbolico e universale.

I motivi archetipici delcesordio poetico. Nel 1936 Pavese esordisce come poeta con la pubblicazione, presso le Edizioni di "Solaria", di Lavorare stanca, una raccolta di liriche di stampo narrati­vo in netto contrasto, sotto l'aspetto stilistico e lessicale, con la linea dell'Ermetismo allora dominante. L’riginalità dell'opera è determinata, in primo luogo, dalle scelte metrico-formali, che, influenzate dal verso lungo del poeta statunitense Walt Whitman (1819-1892), comportano l'adozione di un linguaggio di­messo e prosaico, incline al racconto più che all'effusione lirica. Pavese, tramite un «caso» o un «perso­naggio», per usare le sue parole, mette qui a fuoco i motivi peculiari della sua futura produzione in prosa: l'opposizione, tra città e campagna; il contrasto fra infanzia e maturità, il conflitto tra uomo e donna, la solitudine e lo sradicamento, la ricerca di un contatto impossibile con l'altro. In particola­re, nel componimento in apertura del libro, intitolato I mari del sud, la critica ha scorto la matrice di una delle costanti tematiche dell'intera opera pavesiana: l'immagine archetipica e fondamentale del nóstos, del "ritorno" al luogo delle origini, come termine e approdo di ogni esistenza nomade e avventurosa. Si tratta di uno spunto destinato a essere sviluppato e approfondito dall'autore in gran parte della sua ricer­ca, fino al romanzo conclusivo La luna e i falò (1950).

L’approdo alla narrativa antinaturalistica. Tra il 1935 e il 1936, per motivi politici, Pave­se è costretto dalla polizia fascista a trascorrere un periodo di confino a Brancaleone Calabro; qui inizia a scrivere un diario privato, che, ritrovato fra le sue carte all'indomani della morte, verrà pubblicato con il titolo Il mestiere di vivere. Da queste pagine risulta l'interesse che, intorno alla metà degli anni Trenta, Pavese comincia a rivolgere alla narrativa (racconto o romanzo breve), con l'intenzione di piegare questa forma espressiva in direzione antinaturalistica. Egli ha in mente una narrazione di tipo simbolico, che, sta­bilendo legami fantastici tra le immagini e il loro senso profondo, giunga, secondo le sue parole, a formare «una trama sotto al discorso attraverso dei capisaldi ricorrenti, che additano in uno degli elementi materia­li del racconto un persistente significato immaginoso, una realtà segreta che affiora». Da simile tensione nasce il romanzo breve Paesi tuoi, apparso nel 1941, che subito colpisce i lettori per il suo ritmo rapido e di­retto, per lo stile crudamente realistico, che rimanda sia a Verga e D'Annunzio sia ai modelli americani, so­prattutto James Cain. Al centro del romanzo è l'avventura del giovane Berto, un meccanico di Torino, che, abbandonata la città, va a lavorare in campagna, scoprendo un mondo intriso di violenza, sangue e sesso, attraversato da istinti elementari, pulsioni primordiali e destini tragici e selvaggi.

Sempre su una linea di confine tra una dimensione autobiografica o naturalistica e una più complessa valenza simbolica del reale, si muovono le due successive prove: Il carcere (scritto fra il 1938 e il 1939, ma pubblicato solo nel 1948) e La bella estate (scritto nel 1940 e pubblicato nel 1949, in un unico volume con due altri romanzi brevi, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole). Il carcere è un racconto di ispirazione au­tobiografica, legato all'esperienza del confino e al trauma dell'abbandono da parte di una donna; La bella estate narra la storia di Ginia, una giovane operaia che cerca di adattarsi alla nuova professione di model­la, e della sua iniziazione alla vita.

 

2. Alla ricerca di una matrice originaria

Il mito dell’infanzia. Negli anni dolorosi e sofferti della guerra Pavese approfondisce lo studio delle tradizioni folkloristiche e popolari. Avvalendosi di numerose fonti (la Scienza nuova di Vico, le opere dei filosofi romantici, i più recenti testi di psicoanalisi, antropologia ed etnologia, fra cui specialmente quelli di Carl Gustav Jung e di Ernesto De Martino), egli arriva a scoprire nel mito una forma di conoscen­za e rappresentazione della realtà superiore a quella attingibile mediante la logica razionale. Lo sforzo di elaborazione teorica di una poetica del mito trova spazio, in particolare, nei racconti e nei saggi pubblica­ti da Pavese nelle raccolte Feria d'agosto (1946) e Dialoghi con Leucò (1947). Alla ricerca di una maniera espressiva in cui fondere «la ricchezza di esperienze del realismo» e «la profondità di sensi del simboli­smo», la riflessione pavesiana si appunta sul valore del passato e sull'importanza dei ricordi, scoprendo la centralità dell'infanzia come età delicata e privilegiata: un'età di straordinaria forza e intensità percetti­va, durante la quale ogni individuo si forma un proprio codice interpretativo, destinato a durare per tutta la vita. La lettura del libro del saggista Albert Béguin L'âme romantique et le rêve (pubblicato nel 1937) servirà poi a Pavese per approfondire la riflessione sul rapporto tra infanzia, in­conscio e verità: l'infanzia dell'uomo e del mondo gli appare come la matrice di ogni autenticità, sicché l'esplorazione di questa dimensione mitica diviene la condizione necessaria per la creazione artistica. Scrive Pavese al riguardo: «L arte moderna è - in quanto vale - un ritorno all'infanzia. Suo motivo peren­ne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia. E in arte si esprime bene soltanto ciò che fu assorbito ingenuamente. Non resta agli artisti che rivolgersi e ispirarsi all'epoca in cui non erano artisti, e questa è l'infanzia».

Il compito della poesia. Alla mitizzazione dell'infanzia fa riscontro, nella poetica pavesiana, l’importanza attribuita alla memoria (individuale e collettiva), come strumento di recupero dell'autenti­cità perduta. Per Pavese, infatti, conoscere è sempre riconoscere («Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno»), è vedere le cose una seconda volta, è ricordare. Nel saggio Del mito, del simbolo e d'altro, contenuto nella raccolta Feria d'agosto, egli indaga esplicitamente il nesso che stringe fra loro i con­cetti di mito, infanzia e poesia. Proprio perché tutto ciò che accade è già avvenuto e trova nel suo model­lo originario il proprio vero significato, spetta alla poesia il compito di risalire all'indietro e illuminare la matrice remota da cui deriva il senso della storia e della vita. Attraverso i ricordi si può raggiungere l’«as­soluto», la radice stessa dell'essere, il suo nucleo mitico, che l'arte ha il dovere di portare alla coscienza e ridurre a chiarezza. Guidato dalla lettura delle opere di Jung e dei maggiori etnologi e antropologi dell'e­poca (oltre a De Martino, Lucien Lévy-Bruhl, Kàroly Kerényi, James Frazer), Pavese definisce il concetto di «assoluto» mediante una serie di formulazioni complementari: assoluto è il selvaggio che sedimenta al fondo della civiltà, è il proibito («la natura torna selvaggia quando vi accade il proibito: sangue o sesso»), è l'irrazionale, è il mistero. Tuttavia, come il mito (per poter essere comunicato) deve essere ridotto a logos ("parola"), così il selvaggio deve essere risolto in modo «noto e civile», o attraverso la coscienza o at­traverso la poesia: «Poesia è ora lo sforzo di afferrare la superstizione - il selvaggio - il nefando - e dargli un nome, cioè conoscerlo, farlo innocuo». Tutti questi temi sono sviluppati in Feria d'agosto, un'opera composita formata da racconti, pagine saggistiche e riflessive, dichiarazioni di poetica. La raccolta da un lato esplora il mito del ritorno quale esperienza paradigmatica dell'umanità che, dopo essersi staccata dalla natura, ritrova il selvaggio nel cuore della civiltà, come l'adulto ritrova nell'inconscio il bambino, che sopravvive e sussulta; dall'altro, metaletterariamente, racconta l'operazione stessa del raccontare.

Il luogo-tempo delle origini. A Feria d'agosto seguono Dialoghi con Leucò, scritti tra il di­cembre del 1945 e il settembre del 1946: un'opera ardua e difficile, ma ritenuta dall'autore il suo libro «più significativo». Per tradurre in forme poetiche la propria assidua meditazione, Pavese adotta la for­ma dialogica sul modello delle Operette morali leopardiane e reinterpreta la mitologia classica alla luce delle moderne scoperte etnologiche, con una prospettiva insieme ironica e drammatica. Attraverso ventisette brevi «dialoghi», gli eroi e gli dèi del mito greco rievocano l'incontro con i mostri che popola­vano la terra prima del loro avvento e denunciano la traccia indelebile che quell'esperienza ha lascia­to. Il passaggio dall'infanzia alla maturità, che significa assunzione di responsabilità ma anche accetta­zione dei propri limiti, viene qui rappresentato come passaggio dal mondo dei titani, caotico e irrazio­nale ma libero, a quello degli dèi e degli eroi, razionale ma pieno di obblighi e di norme. Si tratta, secon­do Pavese, di una transizione necessaria e inevitabile, ma al contempo dolorosa, perché costringe l'in­dividuo e l'umanità intera a resecare da sé il suo fondo autentico, proprio e personale, benché violento e selvaggio.

 

3. L’esito tragico della parabola pavesiana

Lo scontro con la realtà e con la storia. Tra l'ottobre e il dicembre del 1946 Pavese la­vora a un nuovo romanzo, Il compagno (edito nel 1947), forse l'unica sua opera ascrivibile in qualche mi­sura alla corrente neorealista, agli antipodi della poetica allusiva e intellettualistica dei Dialoghi con Leucò. Vi si racconta la storia di Pablo, un giovane nullafacente, suonatore di chitarra, vagabondo, che, al tenni­ne del proprio percorso di formazione (esistenziale e politica), approda alla maturità e all'antifascismo. Quindi, tra il settembre del 1947 e il febbraio successivo, Pavese si dedica alla stesura del romanzo La ca­sa in collina, ricco di riferimenti autobiografici: il protagonista, Corrado, è infatti l'evidente trasposizione dell'autore. La storia si svolge nel corso del 1943, all'epoca della guerra partigiana e della caduta di Mussolini. La «collina», elemento costitutivo dell'immaginario pavesiano, appare all'inizio del romanzo come il luogo del mito, dell'assenza della storia, come il simbolo di un modo di vivere solitario, incline alla contemplazione più che all'azione; ma, nel corso dell'opera, il protagonista scopre drammati­camente che soltanto nell'incontro con la realtà, con la concreta società che lo circonda, egli può perve­nire alla conoscenza di sé e del proprio destino. Alla fine del romanzo, il ritorno di Corrado alla collina dell'infanzia, che ha le movenze di un viaggio fiabesco, di un cammino iniziatico, è un ritorno verso il luogo del proprio autentico essere, in contrapposizione alla città, spazio umano dell'inautentico, del dive­nire caotico; ma diventa anche un procedere nel regno dei morti alla ricerca della propria identità: infatti anche sulla collina è arrivata la guerra, che non ha risparmiato lo spazio mitico del passato, anzi ne ha sancito la distruzione, la morte.

Il viaggio fallimentare di Anguilla. Il rapporto tra mito e storia è centrale nell'ultimo ro­manzo pavesiano, La luna e i falò, scritto nel 1949 e pubblicato l'anno successivo. In esso viene ripreso il tema ulissiaco del nóstos, del ritorno ai luoghi natali, di cui si predicano, al contempo, la necessità e l’impossibilità. Il protagonista Anguilla, quarantenne, dopo avere fatto fortuna in America, decide di tornare nelle Langhe piemontesi dove è cresciuto, con la segreta speranza di ritrovare così le proprie radici. Ma la sua è una chimerica illusione, che viene smentita, come egli scopre presto, dai fatti e dalla storia: la terra della sua infanzia è profondamente mutata, le persone sono cambiate o scomparse, e il passato appare per sempre irrecuperabile. Il viaggio di Anguilla diventa così un cammino nel mondo dei ricordi, verso uno spazio mitico e primordiale, al di fuori del tempo, opposto e antitetico all'America, che è vista dal protagonista come il continente degli spazi infiniti e del movimento caotico e continuo. Guida di Anguilla è Nuto, l’amico rimasto nella terra dell'infanzia, che, quasi fosse un Virgilio dantesco, lo accompagna nel­la sua quête gnoseologica verso il passato. Ma il falò nel quale brucia la casa che aveva ospitato il protagonista bambino e quello con cui i partigiani hanno dato fuoco al corpo della bella Santa segnano la fine di questa esperienza. «Che cosa resta?» è l'angosciosa domanda che riecheggia nel corso del romanzo, a testimoniare l'impossibilità di ogni ritorno alle origini.

L’ultimo messaggio. La luna e i falò è l'ultima opera dello scrittore. Nella notte fra il 26 e il 27 ago­sto 1950, in un albergo torinese, Pavese si uccide con una dose massiccia di sonniferi, definitivamente in­ghiottito da quel «gorgo» a cui più volte, soprattutto negli ultimi anni, ha fatto riferimento nelle sue pagi­ne. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, / come vedere nello specchio / rie­mergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti», scrive in una poesia del marzo del 1950; e, negli stessi mesi, annota nel diario: «Sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza [...]. La risposta è una sola: suicidio». L’ultimo messaggio viene lasciato dall'autore, mano­scritto, sulla prima pagina di una copia di Dialoghi con Leucò: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

I clamori sollevati da questa tragica fine subito contribuiscono a trasformare il personaggio di Pavese in un mito, distogliendo per qualche tempo l'attenzione da una valutazione più puntuale e rigorosa della sua opera. E quando il problema critico si sposterà dall'uomo allo scrittore, vi sarà chi, come Moravia, parlerà di un Pavese «decadente»: una categoria oggi meglio precisata entro le coordinate del "simboli­smo", certamente più proficue per una comprensione complessiva dell'opera dell'autore.­

 
© luciano zappella