La commedia greca

1. Differenze tre tragedia e commedia

 La parola «comico» ha in italiano due significati: «proprio della commedia» e «che fa ridere». Il secondo significato deriva dal primo e si spiega etimologicamente con il fatto che nell'antichità greca e romana il genere della commedia era caratterizzato dall'intenzione e dalla funzione di divertire il pubblico degli spettatori suscitandone il riso.

Abbiamo già detto (tragedia) che anche la commedia, come la tragedia, era collegata, sia nelle sue origini sia nelle circostanze delle rappresentazioni, con feste e riti religiosi, e che si presentava come uno spettacolo misto di poesia, musica, canto e danza, eseguito da attori e da coreuti che portavano la maschera. Vediamo ora le principali differenze tra i due generi drammatici:

  • poiché la commedia si propone di divertire e rallegrare il pubblico, essa prevede sempre lo scioglimento felice del nodo drammatico, il superamento degli ostacoli e delle difficoltà nel lieto fine; la tragedia invece rappresenta azioni gravi, dolorose, spesso luttuose e con esito funesto; 

  • la commedia mette in scena per lo più personaggi di condizione sociale umile o media (piccoli proprietari terrieri, mercanti, artigiani, soldati mercenari, schiavi, cortigiane) e vicende della vita comune; i personaggi della tragedia, invece, sono di rango elevato (re e regine, divinità, eroi ed eroine) e le vicende sono tratte dalla storia e specialmente dal mito, utilizzato come repertorio da cui attingere simboli di valori e disvalori, che forniscono lo spunto per dibattere grandi temi morali, religiosi e politici;

  • in accordo con la quotidianità dei personaggi e delle situazioni, lo stile della commedia è «umile», cioè semplice, piano; tende a riprodurre, stilizzandolo, il linguaggio della comunicazione ordinaria; la tragedia adotta invece lo stile grande, alto, sublime, fortemente differenziato, grazie all'elaborazione artistica, rispetto alla lingua d'uso.

2. Etimologia del termine komodìa

Quanto abbiamo detto finora vale per la forma del genere comico che conosciamo meglio: la commedia attica, che fiorì ad Atene a partire dall'inizio del V secolo a.C. Le sue origini remote (assai oscure) risalgono a feste agresti e ai riti dionisiaci della fertilità e della fecondità: l'ipotesi più probabile sull'etimologia del termine greco komodìa (da cui il latino comoedia) lo fa derivare da kòmos («corteo», «processione») e odè («canto»), cioè «canto del corteo dei devoti di Dioniso»: il coro sarebbe stato il nucleo originario di questa, come dell'altra forma teatrale, la tragedia.

 

3. Il dramma dorico: Epicarmo

Sulla formazione, in età storica, e sulla caratterizzazione della commedia attica esercitò un influsso sicuramente rilevante, anche se difficilmente valutabile per la scarsità della documentazione oggi disponibile, il genere parallelo del «dramma» dorico, il cui massimo rappresentate, Epicarmo di Siracusa, fu attivo in Sicilia molto prima (secondo la testimonianza di Aristotele nella Poetica) dei primi commediografi attici, cioè già nel VI secolo, oltre che nei primi decenni del V.

Epicarmo - che fu molto apprezzato anche da Platone - scrisse dràmata (così li chiama Aristotele), commedie o farse in versi, di cui conserviamo solo titoli e frammenti. Vi aveva largo spazio, insieme alla rappresentazione realistica della vita quotidiana, anche la parodia mitologica, con una spiccata preferenza per i personaggi di Eracle (= Ercole) e di Odisseo (= Ulisse), protagonisti di avventure ispirate al mito, ma comicamente e grottescamente deformate: Eracle, per esempio, era presentato come un formidabile mangiatore e bevitore e dava spunto a iperboliche descrizioni e rappresentazioni di scorpacciate e di bisbocce.

Caratteristica dei drammi epicarmei era anche la sentenziosità, tanto che furono compilate ben presto raccolte di gnòmai (= sentenze, massime di carattere generale) estrapolate dalle commedie e tramandate separatamente (lo stesso fenomeno si verificherà poi per le commedie di Menandro, anch'esse ricchissime di sentenze).

4. La commedia attica

Tornando alla commedia attica, ricordiamo che i filologi di età ellenistica (III secolo a. C.) distinsero tre fasi o momenti successivi nella sua evoluzione: la commedia «antica» (greco archàia), quella «di mezzo» o «mediana» (greco mese) e la commedia «nuova» (greco néa), rappresentate ciascuna da decine di autori, la cui imponente produzione è andata quasi completamente perduta.

Gli antichi - sempre inclini ad istituire «canoni», cioè elenchi di autori eccellenti nei vari generi letterari - indicarono i massimi rappresentanti dell'archàia e della néa in due triadi di poeti: per la commedia antica Cràtino, Èupoli, Aristófane (attivi ad Atene nella seconda metà del V secolo a. C.), per la commedia nuova Filèmone, Dífiio, Menandro (IV-III secolo a. C.). Gli unici commediografi greci di cui possiamo leggere oggi opere intere sono i due massimi esponenti, rispettivamente, dell'archàia e della nèa: Aristofane e Mlenandro; mentre degli altri si conservano soltanto frammenti, abbastanza numerosi ma per io più di breve o brevissima estensione.

 

5. Aristofane

Di Aristófane (445-385 circa a. C.) ci sono state tramandate undici commedie (Acarnesi, Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli, Lisistrata, Tesmoforiazùse, Rane, Ecclesiazùse, Pluto), i cui argomenti sono strettamente connessi con l'attualità politica ateniese. Al centro degli interessi del poeta e del suo pubblico sono infatti le vicende ed i problemi dell'Atene contemporanea: la guerra del Peloponneso, che contrappose Atene a Sparta per quasi trent'anni (431-402 a. C.: appunto in questo periodo fu rappresentata la maggior parte delle commedie di Aristofane che conserviamo); gli scontri fra il partito della guerra e quello della pace; i mali e i pericoli della demagogia; la corruzione e il malcostume dominanti nella vita politica e giudiziaria; i rischi di degenerazione morale insiti nel nuovo programma educativo proposto dal movimento sofistico (e che il commediografo nelle Nuvole attribuisce a Socrate), ecc.

La potente carica fantastica ed espressiva di Aristofane è al servizio del suo impegno civile che si manifesta - secondo i moduli propri del genere comico - nella ridicolizzazione degli avversari (gruppi di potere, correnti d'opinione, singoli individui), attaccati con tutte le armi dell'aggressione comica: la satira pungente, la caricatura grottesca, il sarcasmo feroce, la beffa, l'invettiva, il dileggio e anche l'insulto personale: l'abitudine di attaccare violentemente e direttamente singole persone, chiamandole per nome, era tipica, appunto, della commedia antica; Aristofane segue questo uso, così come ricorre volentieri al turpiloquio, allo scherzo becero, al doppio senso osceno.

 

6. La commedia nuova. Menandro

Diversissima dalla commedia antica, nei temi e nello stile, è la néa che - dopo la parentesi della mése, di cui sappiamo molto poco - tocca il suo culmine con Menandro (342-291 a. C.), quasi un secolo dopo Aristofane. Di Menandro si conservavano, sino alla fine dell'Ottocento, solo brevi frammenti citati in altri autori antichi e una raccolta di  «sentenze». Fortunati ritrovamenti di papiri ci permettono oggi di leggere una commedia intera (Dyskolos: «misantropo») e spezzoni abbastanza ampi di una decina di altre commedie (fra cui ricordiamo L'arbitrato, La donna di Samo, La donna tosata, Lo scudo).

La produzione di Menandro rispecchia un contesto storico, politico e culturale profondamente mutato rispetto all'Atene di Aristofane: in seguito al declino delle strutture e della pòlis dopo Ia conquista della Grecia da parte di Alessandro Magno, la politica non appassiona più il pubblico ateniese; e il dibattilo intellettuale - di cui la commedia continua a farsi tramite, essendo in Grecia istituzionalmente e tradizionalmente assegnata al teatro la funzione non solo di intrattenere e divertire, ma anche di ammaestrare ed educare il pubblico - si sposta su temi psicologici e morali, sui problemi della vita quotidiana, specialmente per ciò che concerne le relazioni degli individui con l'ambiente famigliare e sociale. Vengono alla ribalta vicende di giovani innamorati ostacolati nei loro amori dalla severità di padri autoritari ed avari; tensioni e turbamenti fra giovani coniugi causati dalla gelosia, da incomprensioni o da equivoci; storie complicate di fanciulle «esposte» (cioè abbandonate subito dono Ia nascita, secondo una pratica frequente nell'antichità) o rapite dai pirati e vendute a lenoni (=mercanti e sfruttatori di prostitute) che, dopo una serie di vicissitudini, ritrovano i genitori e possono sposare i giovani che le amano.

 

7. Le trame e il messaggio morale

Le trame sono molto complicate ma anche molto ripetitive; potremmo definirle romanzesche per gli elementi avventurosi, le peripezie, i colpi di scena, costituiti specialmente dai «riconoscimenti» inaspettati e risolutori (del resto il genere del romanzo è strettamente imparentato con la commedia). Su tutto domina la Fortuna: ad essa si deve, di regola, lo scioglimento felice, immancabile, come sappiamo, in un genere che ha la funzione di rasserenare il pubblico, trasmettendogli un messaggio ottimistico e consolatorio, facendolo evadere, sia pure solo per breve tempo, in una dimensione in cui (per esprimerci con termini desunti dalla psicanalisi) il principio di piacere trionfa sul principio di realtà.

Ma la commedia menandrea convoglia anche un chiaro, pur se spesso implicito, messaggio morale: il lieto fine appare come la meritata ricompensa di comportamenti mirati alla ragionevolezza, al senso della misura, ai buoni sentimenti; al di là dei casi fortuiti, che non dipendono dall'uomo, e nonostante gli inevitabili errori in cui chiunque può incorrere, le difficoltà si superano - dice o suggerisce il commediografo -, i contrasti si appianano e l'armonia famigliare viene ricomposta, se ciascuno è disposto a riconoscere i propri limiti, ad ammettere i propri torti e a dimostrare comprensione e indulgenza verso le debolezze e le colpe altrui: la vita può essere più piacevole e serena grazie alla «filantropia» (=disposizione benevola verso il prossimo), all'amicizia, alla solidarietà e alla tolleranza reciproche.

Coerentemente con l'intento moralistico ed edificante, la comicità menandrea è misurata e pacata, non oltrepassa mai i limiti della decenza e del buon gusto. All'aggressività graffiante e corrosiva, alla violenza verbale della commedia antica subentrano un umorismo sorridente e mai volgare, l'arguzia bonaria, l'ironia sottile.

 

8. I personaggi

Per quanto riguarda i personaggi, essi sono il risultato di un processo di tipizzazione iniziatosi già con l'archaia e che porta ai formarsi di caratteri convenzionali, dotati di tratti costanti (che Menandro peraltro interpreta con duttilità e con spiccata tendenza all'approfondimento psicologico): il vecchio padre severo e attaccato al denaro; il giovane perdutamente innamorato e sprovveduto, oppure scapestrato e senza mezzi, e dunque sempre bisognoso dell'aiuto di amici comprensivi e di servi astuti; la cortigiana avida e sfacciata, capace però anche di buoni sentimenti e di generosità; il soldato rozzo, prepotente e spaccone; lo schiavo pigro e pauroso, ma al tempo stesso intelligente e scaltro, che trama ai danni del padrone vecchio per aiutare il padroncino; il lenone empio e crudele; oltre a vere e proprie «macchiette» con funzione esclusivamente comica, come il cuoco spavaldo e gradasso, o il parassita adulatore e ingordo.

 

9. Differenze rispetto alla commedia antica

Rispetto all’archaia, gli intrecci sono costruiti con maggior cura e con maggior preoccupazione per la verosimiglianza. Scompaiono gli elementi fantastici, paradossali, surreali, che abbondavano in Aristofane (dove, per esempio, il coro di alcune commedie è costituito da vespe, uccelli, rane, nuvole). La commedia di Menandro è definita dagli antichi imitazione perfetta della vita comune. Non è certo una definizione da prendere alla lettera. Anche nella commedia nuova permane una serie di convenzioni tipicamente teatrali, impensabili al di fuori della finzione scenica e dello speciale rapporto che s'instaura fra il palcoscenico e gli spettatori: i monologhi, le battute «a parte» (che un personaggio pronuncia ad alta voce senza essere sentito dagli altri personaggi presenti sulla scena), l'apostrofe rivolta direttamente al pubblico specialmente - ma non soltanto - nei prologhi e negli epiloghi, ecc. Ma è evidente l'aspirazione alla verosimiglianza, oltre che nello stile pianamente colloquiale, anche nella ricerca della naturalezza sul piano della caratterizzazione psicologica, e della coerenza su quello della costruzione ed articolazione dell'intreccio.

Nella stessa direzione porta la drastica riduzione, fino all'eliminazione quasi totale, dell'elemento lirico-musicale, legato in Aristofane soprattutto alla presenza del coro. Quest'ultimo, nella néa, praticamente scompare; i canti corali - che erano nella commedia antica le parti più impegnate ideologicamente, più esplicitamente e scopertamente politiche - si trasformano in semplici intermezzi (o interludi) fra un atto e l'altro, puri riempitivi senza rapporto con l'azione scenica (tanto che il testo dei canti corali non viene neppure riportato dai papiri che conservano le commedie menandree). Il metro di gran lunga dominante è il trimetro giambico, cioè il verso tipicamente dialogico, proprio delle parti semplicemente recitate, senza accompagnamento musicale.