La tragedia greca |
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1. Tragedia e commedia: tratti tipici |
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La
tragedia è un genere letterario teatrale, caratterizzato in
primo luogo - come l'altro genere del dramma classico, la commedia -
dalla forma drammatica, cioè dal fatto che un'azione (greco drama)
viene
rappresentata sulla scena come se si svolgesse in quel momento sotto gli
occhi del pubblico, convenuto per assistere allo spettacolo. Dunque
l'autore non vi parla in prima persona (come fanno invece sia il
narratore epico sia il poeta lirico), ma dà la parola ai personaggi,
protagonisti della vicenda drammatica. Altri
tratti comuni alla tragedia e alla commedia sono:
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2. Le origini della tragedia |
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Le
origini delle due forme teatrali si perdono nell'oscurità della
preistoria; particolarmente intricata è la questione delle origini
della tragedia, assai dibattuta fin dall'antichità e non
risolvibile se non in via del tutto ipotetica. Il
termine greco tragodía deriva da tragos = «capro» e odè
= «canto»;
ma non è più recuperabile con sicurezza la motivazione originaria di
tale denominazione. Tra le varie proposte d'interpretazione la più
probabile resta «canto dei capri», cioè dei devoti,
mascherati da capri, del dio Dioniso: essa presuppone che fin
dall'inizio anche la tragedia, come la commedia, fosse collegata con i
culti dionisiaci. Tale
collegamento tuttavia, pur affermata dalle fonti antiche, viene messo in
dubbio oggi da alcuni studiosi i quali propendono per una genesi diversa
delle due forme drammatiche: mentre la commedia, con il suo carattere
gioioso di allegra festa popolare, sembrerebbe effettivamente derivare
dai riti dionisiaci della fecondità e della
rigenerazione, la tragedia, che mette in scena vicende mitiche gravi e
luttuose, troverebbe la
sua origine piuttosto nei culti eroici, e si sarebbe sviluppata
da canti corali, e poi da embrionali azioni mimiche, che commemoravano
le gesta degli eroi e specialmente i loro patimenti. È significativo a
questo proposito che il lamento funebre, il compianto per la
morte dell'eroe, sia presente in molte tragedie, con caratteri formali
chiaramente riconducibili a pratiche religiose: esso rimanda ad una fase
in cui la rappresentazione era un rito collettivo ancora dotato
di un significato sacrale. Il collegamento con i culti dionisiaci sarebbe avvenuto nel VI secolo a. C. ad opera dei 'tiranni' (in primo luogo Pisistrato ad Atene), che avrebbero inserito le rappresentazioni tragiche celebrative degli eroi nel programma delle grandi feste popolari in onore di Dioniso. |
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3. La tragedia ad Atene nel V sec. a.C. | |
Ciò
che sappiamo con sicurezza è che da allora ogni anno, durante le Grandi
Dionisie, e più tardi (dal 432 a. C.) anche in occasione di altre feste
dionisiache chiamate Lenèe, si svolgevano ad Atene concorsi teatrali
organizzati e finanziati dallo Stato in cui venivano portate sulla scena
tragedie e commedie inedite; le rappresentazioni si protraevano per
diversi giorni ed una giuria popolare assegnava i premi ai vincitori,
cioè agli autori delle tragedie e delle commedie giudicate migliori. Il
teatro divenne così, nell'Atene del V secolo a. C. - cioè nel
periodo dell'egemonia e della massima potenza ateniese, che coincise con
la più splendida fioritura del genere tragico - un momento essenziale
nella vita della pólis, un'occasione d'incontro a cui nessun cittadino
poteva mancare, e insieme un potente strumento di diffusione delle
idee presso un pubblico vastissimo (sappiamo che erano decine di
migliaia le persone che assistevano agli spettacoli nel teatro di
Dioniso, sulle pendici dell'Acropoli). Di
quella
ricchissima produzione non molto ci è rimasto. Solo di tre poeti
tragici ci sono state conservate opere complete (ma in numero assai
esiguo rispetto alla loro ben più vasta attività): Eschilo,
Sofocle, Euripide. Tutti e tre ateniesi, tutti e tre vissuti nel V
secolo a. C.: Eschilo dal 525/524 al 456/455; Sofocle dal 497/496 al
406/405; Euripide dal 485/484 al 407/406. Di
Eschilo
possediamo sette tragedie, di Sofocle sette, di Euripide diciassette. |
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4. Gli argomenti delle tragedie | |
Il
serbatoio a cui la tragedia attinge i suoi contenuti è il mito.
Gli argomenti dunque sono gli stessi del genere epico (con cui il genere
tragico ha molti punti di contatto, anche sul piano stilistico). Ma
mentre l'epica narra i miti, la tragedia li mette in scena come se sì
svolgessero in quel momento dinanzi agli occhi degli spettatori; inoltre,
essa sceglie di regola vicende ed azioni dolorose, luttuose, per
la più con esito funesto: per questa l'aggettivo «tragico» ha assunto
il senso traslato di «doloroso, luttuoso», e anche di «violento,
mortale ». La
tragedia infatti, nel quadro della funzione educativa e pedagogica
assegnata al teatro nel mondo greco, assunse il ruolo istituzionale di
affrontare e dibattere grandi temi morali, politici e religiosi,
proponendo alla riflessione, attraverso le vicende mitiche, i problemi
di fondo dell'esistenza umana, e specialmente quelli che sorgono dall'esperienza
del dolore. Non
la vicenda in sé e per sé, dunque, ma piuttosto i problemi che
da essa scaturivano e il dibattito su di essi erano al centro
dell'interesse del poeta e del pubblico. Non deve perciò stupirci il
fatto che nelle tragedie antiche ricorrano più e più volte gli stessi
personaggi e gli stessi argomenti, ché, anzi, la conoscenza
preventiva dei miti da parte del pubblico facilitava la comprensione
e l'apprezzamento di opere incentrate più sulla parola che sull'azione. Edipo,
re
di Tebe, il vincitore della Sfinge, piomba nella disperazione e si
acceca quando scopre di avere involontariamente ucciso il proprio padre
e procreato figli unendosi incestuosamente con la propria madre; Agaménnone,
capo dei Greci distruttori Sono
alcuni esempi delle vicende mitiche più volte messe in scena dai tre
grandi e da tanti altri poeti tragici: sono, come si vede, casi
estremi, e proprio per questo paradigmatici, di caduta
improvvisa da situazioni di prosperità e di potenza in abissi di rovina
e di morte; oppure esempi spaventosi delle funeste conseguenze provocate
dallo scatenarsi furioso delle passioni non dominate dalla ragione:
altrettante occasioni per interrogarsi sul mistero del male e del
dolore, per chiedersi se esistano gli dei, se lla vita degli uomini
sia retta da una giustizia superiore o dal cieco caso, se ci sia spazio
per la libertà e l'autodeterminazione umane, quali siano i limiti
della colpa e della responsabilità individuali; se alla domanda
perché il giusto debba soffrire sia possibile dare una risposta che non
consista semplicemente nella necessità di rassegnarsi ad una sorte
inspiegabilmente avversa; quali debbano essere i rapporti tra l'uomo
e la divinità, tra marito e moglie, padri e figli, re e sudditi. S'intende che molte di queste domande rimangono senza risposta, e quasi sempre la situazione dell'eroe tragico non trova via d'uscita se non in un gesto estremo e irreparabile; tanto che vi è stato chi, come Wolfgang Goethe e altri dopo di lui, ha voluto individuare l'essenza del tragico in un «conflitto inconciliabile», cioè, nella coscienza di un'antinomia irriducibile, di una contraddizione profonda e insanabile che sta alle radici stesse dell'esistenza umana.
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5. Funzione della tragedia secondo Aristotele |
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Accanto al tentativo d'inquadrare razionalmente fatti e vicende oltremodo problematici, interpretandoli alla luce di ideali, valori, schemi e modelli di comportamento esemplari (sia nei bene sia nel male), rileviamo nella tragedia classica la tendenza ad impressionare e scuotere emotivamente il pubblico suscitando forti emozioni. Su questo aspetto punta specialmente, nella sua analisi del genere tragico, Aristotele. Nella sua Poetica, infatti - un trattato in cui sono esaminate e messe a confronto l'epica e la tragedia - egli indica nella paura e nella pietà i sentimenti specifici che lo spettacolo tragico deve destare negli spettatori; tali sentimenti, secondo il filosofo, hanno origine dall'immedesimazione nell'azione drammatica, indotta dall'efficace imitazione artistica di fatti commoventi e terribili; a questa forma di eccitazione emotiva, egli afferma, si accompagna un processo di purificazione («catarsi»), in quanto la tensione, dopo essere giunta al culmine, si allenta, provocando in chi assiste allo spettacolo un senso di liberazione rasserenante. Aristotele attribuisce dunque alla tragedia una funzione quasi terapeutica, di sfogo innocuo e di conseguente regolazione della passionalîtà istintiva presente in ogni uomo. |
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6. Caratteri formali della tragedia |
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Per
quanto riguarda gli aspetti formali, lo stile della tragedia è 'alto',
sublime, cioè solenne e molto elaborato artisticamente, specialmente
nelle parti cantate (dette anche «liriche»), con l'utilizzazione di
tutte le figure di pensiero, di parola e di suono, atte ad elevarlo ben
al di sopra del linguaggio ordinario e a renderlo efficace, incisivo e
«patetico» (cioè capace di esprimere e al tempo stesso di
suscitare affetti, sentimenti, emozioni). L'azione
drammatica è articolata secondo uno schema che non cambiò
sostanzialmente nel corso dei secoli (la tragedia è forse il genere
letterario più rigido, presto fissato in forme canoniche e poco
soggetto ad evoluzioni e a innovazioni): ad un «prologo»,
recitato ora da uno ora da più personaggi, segue la «pàrodo»,
cioè il canto d'ingresso del coro; si succedono poi vari «episodi»
(nelle tragedie conservate, da un minimo di tre a un massimo di sette),
costituiti da una o più scene, ed intervallati da canti corali («stàsimi»);
chiude il dramma l'«èsodo» (lett. «uscita»), corrispondente
ad una o più scene finali. Pare
che si sia venuta instaurando solo in età ellenistica (IV-III secolo a.
C.) la regola dei cinque atti a cui fa riferimento Orazio nell'Arte
poetica (vv. 188s.) e che diverrà canonica nella tragedia
d'imitazione classica, dal Rinascimento in poi; ad essa si attengono (ma
non senza qualche eccezione) le tragedie di Seneca, in cui il prologo
corrisponde al primo atto e l'esodo al quinto, mentre quattro canti
corali sono interposti fra un atto e l'altro.
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7. La funzione del coro |
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Come
nella commedia, lo spazio riservato al coro, amplissimo nei testi
più antichi, venne progressivamente riducendosi, in concomitanza
con la perdita d'importanza dell'aspetto "politico" della
tragedia, per il declino della pólis a partire dal IV secolo a. C. Il
coro infatti dava espressione ai giudizi, ai sentimenti, ai dubbi dei
cittadini quando la collettività riconosceva nello spettacolo teatrale
un'occasione significativa d'incontro e di dibattito; in età
ellenistica, invece, il coro finì con l'essere relegato al ruolo
secondario d'intrattenere il pubblico con i suoi canti e le sue danze
negli intervalli fra un atto e l'altro.
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8. Ragioni del successo di Euripide |
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L'autore
più rappresentato e più
imitato
fu Euripide. Non molto apprezzato dai contemporanei per l'audacia
delle sue innovazioni e il carattere sperimentale della sua arte, egli
incontrò successivamente grande favore, soprattutto per la complicazione
avventurosa delle trame, dovuta all'utilizzazione di varianti meno
note dei miti o anche all'inserzione di nuovi sviluppi inventati dal
poeta stesso (non senza influssi su altri generi letterari: alcuni
espedienti adottati da Euripide, come rapimenti, naufragi, riconoscimenti,
divennero poi tipici della commedia e del romanzo). Altri
elementi che spiegano la preferenza per Euripide sono l'approfondimento
e la cura realistica della psicologia dei personaggi (anche
secondari e socialmente inferiori, come nutrici e servi) e la massiccia
presenza della retorica: nelle tragedie euripidee i dibattiti
sono veri capolavori di abilità dialettica e frequentissime sono le sentenze
(gnòmai), cioè le massime morali, espresse con straordinaria
efficacia ed incisività. |