NUOVE PROPOSTE DI LETTURA SULL’OPERA DI G. LEOPARDI

(queste note sono una rielaborazione da Elio Gioanola, Leopardi, la malinconia, Jaca Book, Milano 1995)

 

 

 

testo in Word

 

 

1. Psicologia e poesia: 1819

Partendo dalla constatazione che vissuto, poetica e ideologia formano un tutt’uno armonico, mi sembra opportuno porre all'inizio di queste riflessioni la data del 1819 come momento di svolta dell'arte e della filosofia leopardiana. E' lo stesso Leopardi a rendersi conto della centralità di questo scorcio temporale (lo testimoniano le lettere e le pagine dello Zibaldone, oltre che, ovviamente, i suoi versi).

Per capirne l'importanza, facciamo un excursus sull'ambiente familiare[1]. Essere figlio di Monaldo e di Adelaide Antici non era certo la cosa più piacevole del mondo. Il padre, o meglio la sua figura simbolica, ha accompagnato Giacomo per tutta la vita, tanto che senza il padre per lui risulta impossibile vivere. In termini di dinamiche psicologiche, Monaldo rappresenta, per il figlio, un tiranno (e ciò, dati i tempi, è anche normale), ma si tratta di un tiranno buono, situazione, questa, che, nonostante le apparenze, aggrava il quadro, perché (come insegnano Freud e tanti altri) il bambino diventa adulto solo quando uccide (metaforicamente) il padre-tiranno[2]. Ora, se il tiranno è buono – e la fama di Monaldo come di un buon padre di famiglia era ben nota presso i conoscenti: ma questi sono i paradossi della vita! –, con che coraggio lo si potrebbe uccidere? E infatti Giacomo non l'ha ucciso, anzi è morto prima di lui, e non solo anagraficamente. Sulla madre Adelaide cito un solo episodio[3] (ricordato dallo stesso Giacomo in Zibaldone 353-355): per effetto del suo cristianesimo, retrivo al limite del patologico (anzi, dello psicopatologico!), arrivava a sostenere che era meglio per i suoi figli morire da piccoli per poter così essere sicuri di andare in Paradiso (sic!). Questo fatto contribuì non poco a far nascere e crescere in Giacomo, il quale effettivamente vide molti suoi fratellini morire piccoli, la convinzione che vivere fosse una colpa; da qui l'esigenza di una vita virtuosa e da qui anche il rafforzamento della malinconia: devo essere virtuoso perché so di non valere niente.

Torniamo al 1819. Come si sa, questa data segna due episodi, uno esterno e uno interno: il tentativo di fuga da Recanati e la conversione filosofica. Soffermiamoci sul primo, intanto. Il tentativo di fuga trova la sua attuazione pratica nel luglio del 1819, quando il Leopardi aveva da un mese compiuto i ventuno anni: si tratta del passaggio alla maggiore età, cosa che consentirebbe a Giacomo di possedere un passaporto e spostarsi così liberamente. E tuttavia non si capirebbe l'episodio senza tener presente il ruolo svolto da Piero Giordani. E' noto che tra i due si sviluppò un intenso scambio epistolare a partire dal 1817: il giovane Leopardi aveva inviato la sua traduzione del II libro dell'Iliade a Vincenzo Monti, ad Angelo Maj e al Giordani (rappresentanti, rispettivamente, della poesia, della filologia e della prosa: fu proprio quest'ultimo a rispondere in termini entusiastici)[4]. Le lettere del Giordani rappresentarono per Leopardi l'unico modo per uscire dal suo isolamento (è chiaro che Giacomo aveva idealizzato la figura di Piero): ai suoi occhi il piacentino rappresentava la letteratura, la sete di gloria, il gusto del bello, tutti elementi che il Leopardi aveva posto come méta da raggiungere dopo la prima conversione, quella del 1816, che segna il passaggio dalla filologia[5] alla letteratura.

Per effetto della corrispondenza con il Giordani, in Leopardi si sviluppa una dicotomia interiore che lo porta ad identificare Recanati come il luogo della malinconia, dell'assenza del bello e della letteratura, mentre il “fuori” è il luogo della salute, della fama, della gloria letteraria[6]. Nel settembre del 1818 il Giordani giunge finalmente, dopo reiterati inviti, a casa Leopardi, dove trova il suo giovane amico ancora vestito con l'abito talare che indossava fin da piccolo: sono giorni di grande fervore per Giacomo che ha l'occasione, per la prima volta nella sua vita, di recarsi a Macerata (nientemeno!). È però certo che la presenza fisica del Giordani rompe certi equilibri tra padre e figlio: mentre il secondo si convince sempre di più della necessità di lasciare le angustie recanatesi e familiari, l'altro non esita a pensare che il famoso letterato sia la rovina dei suoi figli[7]. Per Monaldo il Giordani rappresentava il diavolo, perché con lui erano entrati in casa sua il liberismo, l'italianismo (siamo nello Stato Pontificio, non si dimentichi!), la letteratura "nuda" (cioè senza un fine utilitaristico-pedagogico).

C'è anche da notare che il Giordani, accortosi del fermo desiderio di Giacomo di uscire da Recanati, si spaventò non poco, perché era convinto che si sarebbe recato da lui costringendolo a divenirne il responsabile, tanto che non esitò anch'egli a consigliare a Giacomo l'Accademia Ecclesiastica per la quale faceva pressioni lo zio Carlo Antici. In ogni caso, il Giordani fu il primo a riconoscere la grandezza di Leopardi, come testimonia questa sua lettera all'editore Brighenti: «Quando saremo insieme a quelle nostre confidenze, colle canzoni alla mano[8] spero che potrò giustificare la mia ammirazione per l'ingegno del Leopardi, che proprio mi pare stupendo; e la fortuna del Monti è che ha 45 anni più dell'altro. Ma se Leopardi campa e se Monti fosse giovane anch'egli, credetemi che Leopardi sarebbe un sole che eclisserebbe tutti. Crediatemi (ma tenetelo in confessione) che Monti, Perticari, Maj (e se credete che il signor Giordani sia qualche cosa), riuniti tutti insieme, non fanno la metà dell'ingegno e del sapere di questo giovane di ventuno anni. Dategli solo dieci anni di vita e di sanità e tiratelo fuori degli orrori in cui vive, e ditemi il primo coglione della terra, da Adamo in qua, se nel 1830 in Italia e in Europa non si dirà che pochi Italiani (nei secoli più felici) furono paragonabili al Leopardi».

L'episodio del fallimento della tentata fuga è assai significativo. Il passaporto, che doveva essere recapitato a Giacomo in persona, capitò invece (e non a caso) nelle mani del padre, il quale, ancora una volta, si comportò da tiranno-buono. Dandogli il passaporto, gli disse: "Se vuoi parti!". In termini psicologici, questa si chiama "tattica del doppio vincolo", per effetto della quale lo invita a partire, ma al tempo stesso lo trattiene. E Giacomo lo capisce fin troppo bene, quando scrive: «Io non esco s'egli mi apre le porte, ma se me le chiude: e mio padre se n'è ben avveduto e perciò mostra di non oppormi nessun ostacolo. Ma il cercare di ingannarmi non è aprirmi le porte e io lo considero fin da ora come un nuovo chiavistello».

Abbiamo qui a che fare con un vero e proprio psicodramma: l'impossibilità di ribellarsi e di dimostrare di essere diventato un uomo produce in Giacomo un ulteriore aumento della malinconia, che si esprime nella sua forma classica: la disistima di sé[9]; in altre parole, Giacomo si convince che l'esistenza virtuosa non gli si addice più: «Io sono stato sempre spasimato dalla virtù: quello che io voleva eseguire non era delitto: ma io son capace anche della colpa. Si vergognino che io possa dire che la virtù m'è sempre stata inutile. Il calore e la forza dei miei sentimenti si poteano dirigere a bene, ma se vorranno rivorgerli a male, l'otterranno. E' gran tempo che io so qual'è la via d'essere meno infelice in questo mondo, e ne vedo gli esempi in questa stessa città. Non mi costringano ad entrarvi. Non fo gran conto di me: pur mi parrà sempre formidabile chi avendo amata la virtù da che nacque, si consegna disperatamente alla colpa». Ecco perché è così importante questo episodio della fallita fuga: esso rappresenta il punto di svolta, cioè la conversione filosofica[10], il passaggio dalla disperazione attiva a quella inerte (sono parole sue), il che significa che non esiste più nemmeno la disperazione, ma solo il vuoto, la noia, la malinconia. Lo scrive  al Giordani: «Sono così stordito dal niente che mi circonda che non so come abbia la forza di prender la penna per rispondere alla tua. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla bocca aperta, con le mani tra le ginocchia, senza ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi[11]. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche la morte, non perché io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita dove non viene più a consolarmi nemmeno il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo; e sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose e della condizione degli uomini, morte di tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch'è un niente anche la mia disperazione».

Da quanto s'è detto, si capisce come il 1819 rappresenti lo spartiacque non solo per il Leopardi uomo, ma anche per il Leopardi poeta e filosofo: la fallita fuga coincide con il fallimento delle speranze, viene meno la voglia di combattere, svanisce l'azione e subentra il ghiaccio e il deserto. Per capirlo, basta confrontare le prime due canzoni con Bruto e Saffo: mentre in All'Italia Leopardi poteva dire L'armi, qua l'armi: io solo / combatterò, procomberò sol io (vv. 36-37), in Saffo dice virtù non luce in disadorno ammanto (v. 54), e sottentra il morbo e la vecchiezza e l'ombra / della gelida morte (v. 67-68). Ora, da cosa nasce l'idea dell'infinito se non dal rifiuto dell'azione (sul Tabor egli sta immobile)? E, in secondo luogo, perché negli Idilli non ci sono verbi al futuro, ma sempre verbi "esistenziali", se non quelli che hanno a che fare con l'idea della morte e della distruzione[12]? E allora si capisce anche perché il vero Leopardi, quello che è diventato uno dei più grandi poeti e pensatori della storia, cominci solo dopo la tentata fuga, solo dopo la caduta delle illusioni (un tema questo che attraversa tutta la sua lirica).

 

2. L'Infinito: testo archetipico

Il periodo della «grande glaciazione», del «deserto» si apre con la stesura de L'infinito (e di Alla luna, testo gemello), nel settembre 1819, quindi qualche mese dopo la tentata fuga. Spero di mostrare come questi 15 versi rappresentino il "cuore" di tutta la poetica leopardiana, l'archetipo appunto.

Il 1 luglio 1820 Leopardi scrive nello Zibaldone: «Nella carriera politica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano pieni di immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo all'immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non aveva che un barlume (...) Sono sempre stato sventurato, ma le mie sventure di allora erano piene di vita e mi disperavano perché mi pareva che m'impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. Insomma il mio stato era in tutto e per tutto come quello degli antichi (...) La mutazione totale avvenni in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819 dove, privato dell'uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sulle cose (...), a diventare filosofo di professione (da poeta che io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantumque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente sopra affari di prosa o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a fare versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata; bensì quei versi traboccavano di sentimento». Da queste parole, di una consapevolezza sconvolgente, si vede chiaramente l'infiacchimento dell'immaginazione e il conseguente passaggio dalla poesia alla "filosofia": per uno scherzo del destino, il Leopardi diventa vero poeta quando afferma di non esserlo più!

Già nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani si vede l'identificazione della poesia con la natura e l'opposizione natura vs ragione. Cos'è la poesia contemporanea? In cosa consiste? In un primo momento, Leopardi sostiene che essa nasce dall'immaginazione sul modello degli antichi, anche se il loro mondo è ormai passato. L'esigenza leopardiana è di evitare due pericoli (pericoli per lui, ovvio!): lo scadimento nel patetismo tipico dei Romantici e il cedimento al potere della pura ragione. E tuttavia, la crisi del 1819 lo convince che la poesia d’immaginazione è finita per sempre; da qui l'impossibilità dei moderni di produrre poesia immaginativa a tutto vantaggio della poesia sentimentale. Bisogna però anche precisare che, secondo il Leopardi, la poesia sentimentale non è la "poesia dei sentimenti" (come per i Romantici), ma poesia del puro sentire, della sensibilità, una poesia che nasce dall'angoscia dell'inappartenenza esistenziale (lo "stato di languore" di cui ha parlato sopra). La sensibilità è fonte di poesia; più ancora, è presa di coscienza della vita come assoluta assenza in rapporto con la malinconia[13]. Si rafforza in lui la convinzione che la poesia moderna non possa che essere "malinconica". Qui sta la differenza tra il Romanticismo e Leopardi: per quest'ultimo la vita è il luogo dell'assenza, mentre per i Romantici la vita è "piena" di sentimenti; per l'uno la poesia nasce dal sentimento malinconico dell'assenza, per gli altri nasce da una specie di "affollamento" di svariati sentimenti.

C'è un'altra considerazione che merita di essere menzionata. Leopardi è convinto, a ragione anche questa volta, che la poesia antica nasca da un vero e proprio atto di creazione, cioè una nuova forma di vita, un mondo che prima non c'era, mentre la poesia moderna dipende dal razionale il quale ha distrutto le illusioni che sono la "materia prima" del poeta[14]. A dimostrazione della validità di questa disamina, F. Nietzsche (finissimo lettore del Leopardi), qualche decennio dopo, dimostrerà che solo per il mondo antico è possibile parlare di cultura (nel senso proprio di creazione ex novo di qualcosa che prima non esisteva), mentre il mondo moderno (diciamo dal Cinquecento in poi) conosce soltanto (e non può essere diversamente) la critica della cultura. Merito di Leopardi è di aver compreso che la poesia immaginativa è finita per sempre: chi ancora vi indugia è fuori dalla modernità. Il motivo mi sembra chiaro: il sentimento non è imitabile[15].

A questo punto, stando a ciò che dice Leopardi, L'infinito o non è poesia oppure è poesia di un genere assolutamente nuovo (in effetti non obbedisce ad alcun tipo di progetto). In Zibaldone 1861si dice: «Tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, ispirando della poesia ec., non ponno che ispirare poesia malinconica, com'è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali immagini poteano ben fare minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, né mai si consideravano come cose perdute o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da loro ancor possedute e senza timore». Da queste parole risulta, a conferma di quanto detto prima, che il ricordo di ciò che si è perduto produce malinconia (cioè poesia malinconica, cioè poesia moderna), mentre per gli antichi la poesia è fonte di gioia. Ne L'infinito si tenta di toccare la sensibilità allo stato puro[16], già nel titolo: ciò significa andare oltre le cose come sono per noi (il mondo fenomenico), anche le più care, per cogliere la cosa in sé, il deserto da cui scompaiono i segni della vita. Ricordo che per Leopardi la vita è rimpianto assoluto, è desiderio e oblazione di desiderio[17].

L'idea dell'infinito ha a che fare con la malinconia (in questo senso parlavo archetipo). Ora, in Leopardi la malinconia non è una condizione passeggera, come càpita a molti, ma, direi, esistenziale: ciò che si è perso non è qualcosa del mondo fenomenico, ma la Cosa[18]. Essa è il mondo del non-simbolico, è il pre-linguaggio, è la perdita originaria della madre; in altre parole, la Cosa è il reale che si ribella alla significazione, è il tentativo di creare rapporti con qualcosa di primordiale. Si tratta del Das Ding di cui parla Heidegger, che, a sua volta, risale alla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, al Wille di Schopenhauer, e in definitiva al tò pràgma autò («la cosa in sé») di Platone a cui Aristotele opporrà la teoria del Primo Mobile. Per Leopardi la Cosa è la Natura di cui ha un'irresistibile nostalgia; la Cosa implica l'idea di infinito, è la Cosa che sta prima delle cose e delle parole, è l'oggetto finito usato per indicare un oggetto infinito[19]. Sta tutto qui il rapporto tra malinconia e genialità: ripudiare il desiderio per sublimare il desiderio stesso (il desiderio diventa poesia); è un desiderio infinito e di infinito che nessun piacere finito può appagare. La poesia nasce dal vuoto, dall'assenza, cioè dal desiderio, ma ha la pienezza di una forma formata. La poesia moderna ha a che fare con la parola indefinita e indeterminata[20].

Sulla base di tutto ciò che si è detto, L'infinito è la ricerca della Cosa perduta attraverso il "non-nominabile", cioè gli elementi pre-linguistici (suono e ritmo). E' incredibile come il Leopardi sia riuscito a dire tutto ciò in soli quindici versi, di un'essenzialità unica. Lasciando da parte tutto ciò che si è scritto su questo testo (fiumi di inchiostro!), soffermiamoci su due elementi fondamentali, cioè il binomio sedendo e mirando. Per quanto concerne il primo, ci si può chiedere perché il poeta sottolinei questo particolare: non certo, come si potrebbe pensare, perché la siepe è troppo bassa e quindi costringe a sedersi (sarebbe troppo banale e Leopardi non è mai banale). In realtà, lo star seduto è la posizione tipica del malinconico e, se ci si fa caso, il Leopardi degli Idilli è un soggetto lirico seduto: con ciò si vuole indicare l'abolizione dell'azione e del movimento che prelude al viaggio verso la Cosa, cioè l'uscita dal mondo fenomenico. Come s'è detto sopra, dopo il 1819 il Leopardi passa dalla poesia attiva a quella passiva del richiamo verso la Cosa (profondissima quiete). Il sedendo anticipa l'abolizione della spazio-temporalità e lo dice subito l'iniziale Sempre: si tratta di un "presente onnivoro", per effetto del quale ha senso solo l'essere, la stasi che precede l'ex-stasis (questo è un testo mistico).

A proposito di mirando, si sa che esso indica un vedere tutto interiore[21]: mirare (mondo noumenico) è il contrario di vedere (mondo fenomenico); il mirare è accostamento alla Cosa. La poetica del Leopardi è una poetica del mirare: c'è la realtà e la sua trasfigurazione[22], si va dalla presenza all'evento carico di senso. Nel vedere prevale l'azione, nel mirare la contemplazione (io nel pensier mi fingo). Dopo la Cosa c’è il silenzio, l'afasia.

Un'ultima osservazione. L'annegare e il naufragare sono metafore dell'estasi e il fatto che non compaiano più in seguito (sono infatti degli hapax legòmena) indica l'unicità del testo: in effetti, tranne che in Alla luna che può essere considerato un testo gemello, il Leopardi non è più tornato sul tema, perché l'infinito si coglie una volta sola. Cosa indica il naufragare se non la perdita della fenomenicità? Non a caso, il naufragare leopardiano corrisponde, nel linguaggio mistico, al contemptus mundi, cioè del transeunte, del fenomenico. Si capisce anche perché al tema dell'infinito è collegato quello della rimembranza[23]: il ricordo è il luogo della Cosa. La rimembranza è un luogo pieno di cose fenomeniche che, però, rimandano al noumenico: è un andare verso la Cosa restando nelle cose[24]!

 

3. La filosofia leopardiana: il metodo

La filosofia leopardiana sta diventando parte integrante della rivisitazione critica.

Dice Julia Kristeeva[25]: «la malinconia mi dà una lucidità suprema, metafisica; alle frontiere della vita e della morte ho talvolta il senso e la presunzione di essere testimone del non senso dell'essere; il mio dolore è il volto nascosto della mia filosofia, il suo fratello maggiore, muto. Per questo, il malinconico è naturaliter philosophus e filosofo del nulla essere del nulla». Noi sappiamo bene quanto il Leopardi si indignasse nel sentirsi imputare il tenore della sua filosofia alle sue condisioni fisiche e psicologiche, tanto che è diventato un luogo comune dire "pessimista perché malato".

Qui si pone il problema: come è possibile collegare condizione malinconica con filosofia se lo stesso Leopardi invita a non commettere questo errore? Nessuno dei moderni lettori del Leopardi fu libero dal pensare che ci fosse un collegamento tra malattia malinconica e filosofia, come non ne fu libero il primo lettore del Leopardi, F. De Sanctis, il quale dice: "Questa non è ancora filosofia, è il cattivo germoglio della disperazione, è la secrezione dell'umor nero" (tanto basta per segnare il destino critico del Leopardi nel senso di una svalutazione della sua filosofia!); "mancano al Leopardi le alte qualità di un ingenio filosofico!". E' stato poi, come si sa, il Croce ad estremizzare la posizione desanctissina, quando dice: "Nell’intelletto del Leopardi si formava un giudizio che, a poco a poco, prese veste di teoria filosofica, proeizione raziocinante del proprio stato infelice" (senza commento!). Entrambi, come si vede, collegano il pensiero del Leopardi alla sua malattia, con il risultato di svalutarne il pensiero, dicendo: questo non è pensiero! Più recentemente, si è assistito al fenomeno opposto, cioè si è sganciato totalmente il pensiero leopardiano dalle circostanze concrete in cui è nato (anche questa è un'operazione sbagliata!).

Quando la Kristeeva dice che il malinconico è filosofo per vocazione, non per questo significa che, ispo facto, egli sia in grado di convertire creativamente, senza il misterioso dono della creatività, la propria sofferenza: il malinconico è un filosofo esistenziale[26], ma ciò non significa che sia un filosofo creativo, come il Leopardi, nel quale la filosofia travalica la pura consequenzialità malattita-filosofia, perché in Leopardi sussiste il misterioso dono della genialità. Già Aristotele diceva che la malinconia produce la genialità, così come il malumore, la malattia, la sofferenza[27].Ora, se è vero che tutta la filosofia leopardiana può essere posta all'insegna del negativo, in rapporto con la malinconia, ciò non implica davvero la negatività e quindi l'insignificanza di quel filosofare (come diceva Croce), perché «non da nulla è questa filosofia del nulla!» (sono parole del Leopardi).

S. Timpanaro dice: «La malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente acuta e precoce del pesante condizionamento che la natura esercita sull'uomo, dell'infelicità dell'uomo come essere fisico, per cui essa è diventata un formidabile strumento conoscitivo». Si tratta però di uscire dal generico, dal momento che questa malattia ha un nome e la filosofia possiede un'impronta autonoma e originale: la condizione malinconica è un quadro di riferimento imprescindibile e il sistema filosofico, fatta salva la genialità, non può non portare in sé il codice genetico e il corredo fenomenologico di quello status esistenziale di cui è sublimazione speculativa. Si pensi, per esempio, al tema della noia e del nulla, così centrali nel Leopardi: qui c'è davvero una consecuzione di omologie tra stile e contenuti del pathos, cioè della sofferenza malinconica, e stile e contenuti del pensiero, così che nulla sul piano del vissuto è senza senso in riferimento all'opera e nulla nell'opera si dà senza concreto radicamento in quel vissuto, al di là di ogni determinismo.

Da ciò che si è detto, risulta chiaro come io mi stia muovendo in un'ottica non culturalista: sono convinto che la condizione del Leopardi così connotata sia l'asse portante attorno a cui gira l'intero universo della sua opera e della sua filosofia, la quale è originale nella misura in cui si dà come inedita creazione di stile, e questo ha a che vedere con la configurazione complessiva dell'autore a partire dalle prime esperienze psicologiche. E' solo a partire dalla fenomenologia del vissuto che si può parlare non astrattamente (come ha fatto benissimo il Timpanaro) del pensiero leopardiano. Siamo giunti all'opposto di quanto sosteneva il Croce: se Leopardi non fosse stato così, non sarebbe stato il Leopardi. Lo stesso concetto di ragione non è tanto un prodotto dell'Illuminismo, come si dice spesso, quanto piuttosto un prodotto di casa Leopardi: se ci si pensa bene, specialmente dopo quanto si è detto, il razionalismo leopardiano è un razionalismo monaldiano, cioè derivante a Giacomo dal padre Monaldo, perché, a motivo dell'educazione ricevuta, il Leopardi non ha sviluppato un Io autonomo, ma delle qualità, soprattutto l'intelligenza: ciò è tipico del malinconico, di colui cioè che dipende dagli altri (esattamente come Giacomo dipendeva dal padre).

La ragione, sia come distruttrice dell'errore sia come assassina delle illusioni (la strage delle illusioni), è il fondamento stesso delle relazioni con il padre reale e con il padre fantasmatico, nella devozione totale come nella rivolta impotente. Parlare allora di ascendenza illuminista del pensiero leopardiano, con il suo corollario di sensismo e di naturalismo, è qualcosa di astratto. La ragione è originariamente e soprattutto monaldiana: in nome di essa il ragazzo si è immolato, scoprendone il potere devastante quando il distacco dal dominio paterno lo ha gettato nella malinconia; è stata la devozione sacrificale al padre a fare di Giacomo una mente senza corpo, e la malattia è cominciata con la disperata consapevolezza di questa condizione, così che la ragione è stata fatta colpevole della rovina nel momento stesso in cui la sua tirannia è diventata ossessivamente una caratteristica stessa della malattia. La malinconia può essere definita come pensiero dolente: il malinconico, infatti, è uno che pensa troppo, è un pensatore in eccesso, che trasforma tutto in pensiero. A 17 anni Leopardi scrive il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: si tratta di un libro monaldiano, cioè una demolizione, sulla base della ragione, di tutti gli errori degli antichi, quindi di suo padre [28]. Ciò è importante perché le due conversioni, quella del 1816 e quella del 1819, hanno alla base il passaggio dalla devozione verso la ragione alla consapevolezza che la ragione è colpevole di tutto, per cui l'errore, che prima era considerato il peccato per eccellenza, diventa il positivo: cosa sono, infatti, l'illusione e la fantasia se non un "errore", cioè qualcosa che fa "errare"? Tutto questo capovolgimento avviene senza mai uscire dall'universo monaldiano che ha impiantato questa concezione. Ecco allora che l'Illuminismo subentra solo in seconda istanza.

Quello del Leopardi è stato definito pensiero dolente: ciò è giusto perché nel malinconico il collasso della vitalità fa tutt'uno con l'ipertrofia del razionale; e chi non vive, cioè non prova le distrazioni potente dell'agire, non può fare altro che pensare –sino al dolore mentale– e pensare alla propria condizione. L'attività del malinconico (il pensiero) non può che essere negazione di quella stessa attività (pensiero ridotto a se stesso e privo di ogni raccordo con l'esteriorità). Leopardi diventa filosofo nella misura in cui si afferma la sua malinconia, fino al punto di rottura rappresentato dalla crisi del 1819, quando diventa, come dice lui, «filosofo di professione da poeta che io era».

Certo, anche la più filosofica della malattie, la malinconia, non basta a far diventare filosofi di professione. Questa filosofia, che risulta così nuova da far credere a Croce che fosse inesistente, attinge la propria originalità dal costituirsi, a partire dall'ipertrofia patogena del razionale, come teoria dello scacco della ragione nel trionfo del razionalismo illuministico e idealistico, tra Kant ed Hegel. Conviene allora soffermarsi sul nesso ragione-filosofia. Si tratta di due termini facilmente sovrapponibili e il secondo tende ad assumere una funzione di trascendimento rispetto al primo, cioè: dal momento che la filosofia non può identificarsi, pena la sua distruzione, con l'oggetto che intende distruggere (la ragione), non si può credere che la filosofia leopardiana coincida con la ragione perché altrimenti, siccome tutto il suo pensiero è volto verso la distruzione della ragione, sarebbe lo stesso che morto alla distruzione della filosofia. Al di là delle varie opposizioni (natura vs ragione, illusioni vs realtà, sistema del bello vs sistema del vero), rimane ferma la convinzione circa il potere distruttivo della ragione. Subito all'inizio dello Zibaldone, infatti, Leopardi dice: «Qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel cui perfezionamento facciamo consistere quello dell'uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell'uso intero della ragione (...) E' certissimo che tutto ciò che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole»[29]. Della ragione la filosofia mantiene tutte le caratteristiche negative e in effetti i due termini sono dati come equivalenti e intercambiabili: anche la filosofia impoverisce la vita, la rende brutta e monotona, dissecca le fonti dell'immaginazione, induce all'inazione. Ragione e filosofia realizzano il tipico tratto malinconico dell'assenza di movimento[30].

A questo punto, la domanda è: se ragione e filosofia sono entrambe negative, che senso ha filosofare? Sembra che in un primo momento il Leopardi non si renda conto di questa aporia, come il suo filosofare sulla filosofia sia un trascendimento di fatto della pura negatività di cui tratta. In effetti, non c'è sospetto di aporia fino a quando ragione e filosofia sono dati come equivalenti e il binomio viene contrapposto al mondo dell'immaginazione. Bisogna tener presente che l'equivalenza ragione-filosofia vige fino a quando e nella misura in cui Leopardi ha in mente la filosofia moderna che è essenzialmente critica, cioè demolitrice delle credenze antiche e scopritrice del vero, informandosi ai criteri della matematica e delle scienze[31]. Ma colui che si è fatto filosofo di professione e che fa filosofia sugli effetti devastatori della filosofia fa presto ad accorgersi della propria diversità rispetto ai veri filosofi di professione, perché in qualche modo ha dovuto trascendere quella negatività per accorgersi di essa e, per far questo, ha scosso l'identità tra ragione e filosofia. In secondo luogo: se l'opposizione tra filosofia e poesia fosse assoluta, l'una rappresentativa della modernità e l'altra del mondo antico, perché gli antichi furono anche grandi filosofi? È su questo punto che il Leopardi deve distinguere tra filosofia e filosofia, perché c'è stato un tempo (l'antichità) in cui filosofare non significava rinunciare all'immaginazione e all'azione: il filosofo antico era creativo quanto il poeta[32], perché il suo pensiero era sintetico e costruttivo, non analitico e critico come quello dei moderni. Tutti i pensatori antichi facevano della propria filosofia non una dottrina fredda, ma un modo di interpretare la realtà, tanto da distinguersi dagli altri uomini per la loro vita singolare (si pensi a Socrate e ai Cinici). In questo modo, dice Leopardi, la filosofia antica era vicina al pensare primitivo, affine alla natura: «Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore, ma non pianta niuna verità; dunque se l'uomo non avesse errato sarebbe già sapientissimo. Ma chi non ragiona non erra. Dunque, chi non ragiona o non pensa è sapientissimo. Dunque sapientissimi furono gli uomini prima della nascita della sapienza e del raziocinio sulle cose: sapientissimo è il fanciullo e il selvaggio che non conosce il pensare"[33]. Per il Leopardi quindi il migliore filosofo è colui che non pensa. Per uscire da questa situazione paradossale (non si può certo dire che i filosofi antichi non pensassero!), bisogna mediare tra i due termini dell'opposizione che di per sé conduce al paradosso: la mediazione consiste nel disancorare la filosofia dalla coincidenza, tutta moderna, con la ragione.

Qual è allora la vera filosofia? Il razionalismo aristotelico o la filosofia di Platone che include anche l'immaginazione? La domanda è parallela a quella sulla vera poesia perché, come la poesia vera è quella antica, così la vera filosofia è solo quella moderna, con la possibilità che anche anticamente si potesse filosofare razionalmente (Aristotele e seguaci) e che anche modernamente si possa fare poesia in termini di sentimento. Si capisce quindi che il Leopardi, dopo aver puntato sull'opposizione natura vs ragione, antico vs moderno, poesia vs filosofia, è costretto a porsi domande sulla natura del proprio filosofare, dal momento che si rende conto di essere sia filosofo sia poeta. Ecco allora che Leopardi conia un termine molto significativo: parla di ultrafilosofia. Essa è lo sforzo di trascendimento della ragione pura, caratteristico di tutta la speculazione leopardiana, costantemente alla ricerca di ciò che, sempre nell'uso rigoroso degli strumenti razionali, valga a scuotere l'identificazione tra ragione e filosofia. Il superamento di tale identificazione non avviene in una mescolanza di poetico e di filosofico, perché i due momenti sono ben distinti. Colui che è diventato filosofo, in quanto vittima della ragione, ha cercato di svincolare la propria filosofia dalla coincidenza con la ragione. Il Leopardi dice chiaramente che sola la ultrafilosofia ci libera dagli inganni della filosofia; da ciò il paradosso secondo cui «nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofo». Il vero filosofo è, secondo Leopardi, colui che valorizza le proprie illusioni, proprio in virtù del suo non essere illuso, mentre il filosofastro combatte le illusioni proprio perché è un illuso. Insomma, il filosofare si presenta a Leopardi come necessità di un superamento dell'opposizione filosofia-poesia, al punto che il fondamento della speculazione diventa la facoltà sensitiva; ne deriva che la filosofia è per Leopardi la scienza della sensibilità, conoscenza intima del cuore umano. Si tratta di un filosofare pre-esistenzialista (intendo dire in anticipo rispetto all'esistenzialismo di Heidegger). Questo spiega anche perché da molti la sua filosofia sia stata considerata una non-filosofia, perché non è affatto una gnoseologia e neppure un'etica: è una fenomenologia esistenziale!

Il nesso filosofia-poesia, assolutamente centrale in Leopardi, è problema metodologico assillante nella misura in cui deve dare conto di quell’irriducibile "altro dalla ragione" che è la natura e la grande novità di questa filosofia, così a lungo incompresa. La qualità tipica dell'ultrafilosofo è quella che il Leopardi definisce il "colpo d'occhio", o "genio", che significa partecipare della sensibilità e quindi della vitalità della natura. Questo lampo rivelatore che dischiude verità nascoste presuppone quelle virtù di sensibilità e immaginazione che, trascendendo la ragione in quanto tale, costituiscono la dote prima del grande poeta. Il vero filosofo immaginato da Leopardi è tanto raro da rischiare l'inesistenza (il vero filosofo è lui e di Leopardi ce n'è uno solo!). Tutto questo però non significa che poesia e filosofia si identifichino e che mescolino il loro linguaggio (anche se deriva dalla stessa fonte): chi si dedica alla speculazione deve usare le armi del mestiere, facendosi "freddissimo ragionatore" (com'era lui), anche se la sorgente della conoscenza viene dalla sua natura di "ardentissimo poeta". E' lo stesso Leopardi che spiega questo paradosso dicendo: «È la contraddizione che involve in sé la ragione, la quale, per fare grandi effetti e decisi progressi, ha bisogno di quelle stesse disposizioni naturali che ella distrugge o ne è distrutta: l'immaginazione e il sentimento». È quindi sbagliato affermare che l'opposizione natura-ragione venga poi risolta, perché l'opposizione resta, anche se sussiste un indissolubile vincolo tra le due facce che la compongono. In effetti, come si è visto sul piano del vissuto (§ 1) e su quello della poetica (§ 2), si tratta degli strati di un'unica condizione esistenziale: è il fuoco del desiderio e della nostalgia di vita, di cui si nutre la poesia, e il ghiaccio della morte malinconica, di cui la ragione è il corrispettivo (ecco di nuovo l'ossimoro ghiaccio-fuoco)[34].

 

4. La filosofia leopardiana: una questione di stile  

Dopo quanto si è detto, ci si potrebbe chiedere se il Leopardi sia da considerare un esponente della cultura moderna o non presenti piuttosto una sorta di preumanesimo (o di antiumanesimo). Per rispondere bisogna considerare che per lui i nomi che contano, quelli a cui si sente più legato, sono proprio i fondatori del pensiero moderno: Machiavelli, Galileo, Cartesio, Newton, Locke. Ne deriva che l'opposizione ragione vs natura, positivo vs negativo non comporta un riflusso preumanistico e oscurantista, perché il Leopardi introduce il concetto intermedio di seconda natura: la ragione è la seconda natura dell'uomo (si tratta dell'epoca moderna). In pratica, per il Leopardi tra l'età della natura e quella della ragione c'è il passaggio intermedio della barbarie, un'epoca, cioè, in cui non esiste più la natura prima (la felicità originaria degli antichi), ma al tempo stesso non esiste ancora la seconda natura: esiste solo l'allegorico, il fantastico, la superstizione connessa con una filosofia razionalista basata su premesse fantastiche (si tratta del Medioevo aristotelico che il Leopardi considera età della barbarie). Il pensatore moderno, invece, è colui che scopre il vero, la "verità effettuale" di cui parla, come è noto, Machiavelli: questa è la seconda naturaancor che triste, ha i suoi vantaggi il vero!», dice Leopardi), cioè il vero come sistema filosofico. A dimostrazione di ciò basterà citare (tra i tanti esempi) il Dialogo di Plotino e Porfirio: quando Plotino sostiene che il suicidio è contro natura, Porfirio ribatte: «quella natura primitiva degli uomini antichi e delle leggi selvagge e incolte non è più la nostra natura: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di quella prima». La prima natura, per cui il suicidio è illecito, non esiste più; di conseguenza, per la seconda natura esso è lecito (anche se poi, come si sa, Porfirio –e lo stesso Leopardi– non si suicida). La seconda natura, insomma, è il minore dei mali possibili: dicendo questo, viene meno l'interpretazione "progressiva" del Leopardi[35], secondo la quale la Ginestra sarebbe l'atto conclusivo di un percorso evolutivo, mentre queste cose il Leopardi le diceva già nel 1824[36]: si può dire, certo, che il Leopardi sia progressivo, ma non nel senso del progressismo settecentesco.

Abbiamo visto come sia la linea idealista (Croce e seguaci) sia quella marxista (Binni, Timpanaro, Luporini), abbiano travisato la filosofia leopardiana, perché non sono riuscite a coglierne la grandezza (il Leopardi non è né positivista né marxista), cioè lo snodo basilare, che consiste nello stretto legame tra pensiero e poesia (la sua è una poesia pensante e un pensiero poetante). A questo punto non ci stupirà saper che gli unici a capire la filosofia leopardiana siano stati gli irrazionalisti tedeschi, Shopenhauer e Nietzsche[37]. Che tra Leopardi, Shopenhauer e Nietzsche vi siano numerosi punti di contatto non mette in conto dimostrare, essendo cosa nota per chi ha letto le loro opere e ne conosca il pensiero. Mi soffermo solo (si fa per dire!) sull'aspetto secondo me fondamentale: il concetto di stile, che significa non solo modo di scrivere, ma anche modo di pensare. Ora, sia Shopenhauer sia Nietzsche (come Leopardi) sono, oltre che filosofi, anche grandi scrittori[38], e lo sono perché dietro lo stile c'è il pensiero e il loro stile di pensiero si traduce in una scrittura artistica, stile del pensiero e pensiero sullo stile[39]. Come dice Shopenhauer: «La conoscenza geniale non segue il principio di ragione: l'uomo di genio non è intelligente, è un selvaggio; il filosofo ideale è colui che non pensa!». È proprio a partire da qui che si capiscono i legami instaurati da Leopardi tra filosofia e poesia: la filosofia è alleata della poesia e viceversa. Come per Schopenhauer e Nietzsche, anche per Leopardi il principio di ogni conoscenza è estetico, non teoretico: la parola è sostanza del pensiero e il pensiero, a sua volta, è un problema di stile, prima ancora che di conoscenza: conoscenza dello stile che diventa stile della conoscenza[40]. In Leopardi, la poesia non è solo il contenuto, ma anche la forma della filosofia: «immaginazione e intelletto sono tutt'uno», dice nello Zibaldone.

Prima di terminare accenniamo a due pilastri del sistema leopardiano:

a) assuefazione: indica l'acquisizione rispetto a ciò che è il dato originario, vale a dire ciò che l'uomo impara, cioè la cultura. «L'uomo è l'animale più assuefabile di tutti»[41]. In questo senso, che cos'è il talento se non la disponibilità a contrarre abitudini e attitudini? L'uomo, dice Leopardi, è il prodotto delle circostanze ambientali e delle manipolazioni che ha subìto[42]. Ne consegue che la filosofia leopardiana è radicata esistenzialmente (cfr. § 3) perché parte sempre dalla sua esperienza e per il fatto che porta in sé le stimmate dell'impianto malinconico[43].

b) relativismo: questo tema è legato strettamente al primo, perché, se tutto è assuefazione, tutto è relativo, dal momento che tutto dipende dai condizionamenti ambientali che ci hanno plasmato; di conseguenza, se tutto è costruito, niente è innato. «Ella è cosa certa e indubitabile: la verità, che una cosa sia buona, che un'altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Questa è una fonte immensa di errori, e volgari e filosofici. Questa è un'osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v'è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev'essere la base di tutta la metafisica"[44]. Il relativismo comporta anche il crollo dell'idea di Dio («principio di tutte le cose e di Dio è il nulla»); non si può tuttavia dire che Leopardi sia ateo, perché in lui c'è una distinzione tra il Dio dei filosofi (in quanto idea) e il Dio di natura, per cui anche il problema di Dio, come si vede, si sposta dalla ragione alla natura[45]. Giova anche ricordare che il malinconico è naturalmente portato all'ateismo perché la malinconia produce il collasso della speranza, quindi della fede (che è, come dice Dante, sostanza di cose sperate), quindi della carità.

 


[1] Per altre notizie, cfr. R. DAMIANI, Vita di Leopardi, Milano, Mondadori, 1992.

[2] Si ricordi l'Ortis foscoliano; ma gli esempi sarebbero numerosi.

[3] Altri se ne possono vedere in DAMIANI, op. cit.

[4] Cfr. DAMIANI, cit., 103ss.

[5] Si tenga presente che già a quindici anni il Leopardi era considerato uno dei filologi più eruditi d'Italia.

[6] Non a caso, quando il padre gli dirà che "extra Recinetum nulla salus!", egli risponderà con un eloquente "extra Recinetum una salus!".

[7] Questa posizione non stupisce se si pensa che Monaldo era un alfiere dell'educazione domestica, tanto da curare personalmente la formazione dei suoi figli, sul modello del Collegio gesuitico, in un periodo in cui la Societas Jesu era stata disciolta.

[8] Si tratta di All'Italia e di Sopra il monumento di Dante.

[9] Cfr. S. FREUD, Lutto e malinconia.

[10] Mentre la prima conversione lo fa passare dalla filologia alla poesia di immaginazione, questa lo fa passare dalla poesia di immaginazione alla poesia di sentimento.

[11] Faccio notare che questa è la tipica posizione del malinconico.

[12] Si veda, per esempio, A se stesso.

[13] Non è un caso, anzi è rivelatore, che Leopardi usi indifferentemente la definizione di "poesia sentimentale" e di "poesia malinconica", come dimostrano molti passi dello Zibaldone.

[14] Da qui nasce l'identificazione poesia antica=natura; poesia moderna=ragione.

[15] Si vedano in proposito le considerazioni dello Zibaldone, in data 8 marzo 1821.

[16] Il tutto nasce, come detto, dal sentimento dell'assenza.

[17] È necessario, in proposito, andare a vedere la leopardiana teoria del piacere, con il suo collegamento tra desiderio del piacere e infinito.

[18] Si veda in proposito le riflessioni di J. Lacan, in La Chose, uno dei suoi Sèminaires, e quelle della sua allieva Julia Kristeeva, Il sole nero, tr. it., Milano, Feltrinelli.

[19] Definizione diciamo noi appunto. De-finire = "smettere di dire il finito".

[20] Si noti come Leopardi dica queste cose prima di Baudelaire, Pascoli, Ungaretti e compagnia!

[21] Si veda lo studio di L. BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell'infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.

[22] Tra l'altro, il monte Tabor è nell’evangelo il luogo in cui Gesù si trasfigura di fronte ai suoi discepoli i quali dicono appunto: "È bello per noi stare qui":

[23] Si veda Alla luna.

[24] Nonostante le apparenze, Leopardi non è mai realistico, neppure quando parla di "gallina tornata in su la via".

[25] Il sole nero, op. cit.

[26] I depressi non fanno altro che elencare la fenomenologia della condizione dolorosa dell'uomo: chi li ha frequentati lo sa bene!

[27] Aristotele non era un malinconico, a differenza di Platone, il cui concetto di mania appare come l'esito di una esorcizzazione della sapienza filosofica: non a caso i Neoplatonici del Rinascimento si erano scelti come patrono Saturno.

[28] Si ricordi a questo proposito l'importanza e il significato degli spaventi notturni di cui il Leopardi parla spesso.

[29] Zibaldone, 103-104; ma si veda anche Zib. 4192, passo del 1824.

[30] Si ricordi lo "star seduto" de L'infinito.

[31] «La filosofia moderna non fa altro che disingannare e atterrare», afferma Leopardi.

[32] Si pensi ai poemi filosofici Peri physeos dei Presocratici.

[33] Zibaldone 2710ss.

[34] A questo proposito, c'è un'osservazione molto interessante del Leopardi circa il peccato originale: contrariamente all'opinione comune, egli afferma che quello di Adamo e di Eva è il peccato dell'intelligenza, perché essi hanno voluto essere come Dio assumendo per sé lo strumento dell'intelligenza (ma, come dice Bergson, «la vita è più dell'intelligenza»).

[35] Cfr. LUPORINI, Leopardi progressivo.

[36] Si veda, oltre alle Operette morali, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani.

[37] Da notare un fatto emblematico: già nel 1855, quando in Italia nessuno ne parlava, un esule russo, sulla rivista Atheneum François, definiva il Leopardi «uno dei più geniali pensatori che ci offra la filosofia».

[38] Del primo si veda quel delizioso libretto che è Sul mestiere dello scrittore sullo stile, tr. it. Milano, Adelphi, 1993

[39] Si vedano i rilievi negativi mossi da Shopenhauer sul modo di scrivere di Hegel.

[40] «Lo stile è la fisionimia dello spirito» (Shopenhauer, Sul mestiere, cit., pg. 42).

[41] Zibaldone 1456.

[42] Ciò spiega perché ci siamo soffermati sul vissuto del poeta: è lui stesso che ci invita a farlo, non solo l'amore per la psicanalisi!

[43] Come dice la Kristeeva (op. cit.), «la malinconia mi conferisce una lucidità straordinaria».

[44] Zibaldone 452 del 22.12.1820. Faccio notare che per Leopardi metafisica corrisponde a filosofia in generale.

[45] Cfr. Zibaldone 1619.