LA VERTIGINE DELLA LUCIDITA'

(in Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Bompiani, Milano 1997, pp. 175-186)

 

 

 

testo in Word

 

 

Leopardi è l'unico grande pensatore-Poeta che l’Italia abbia avuto da a molti secoli a oggi ed è anche l’unico scrittore italiano dell’Ottocento dalle cui pagine emani quel profumo di deserto in cui riconosciamo uno dei segni meno equivoca­bili del moderno: ma, per un'ironia del destino che certo ha colpito molte altre figure d'eccezione e tuttavia, nel caso di Leopardi, è forse ancora più paradossale e pungente, l'uomo che ha vissuto e cantato l'esperienza del deserto è divenuto non solo l'oggetto d'una pletorica e inarrestabile produzio­ne accademica, ma anche, nello stesso tempo, un caso dispo­nibile alle più gratificanti e improbabili annessioni ideologi­che. Uno dei saggi dell'umanità, che trova i propri antenati ideali soltanto in Buddha o Qohelet, è stato costretto a rive­stire l'abito miserabile dell'intellettuale moderno.

Da più di trenta anni, da quando cioè furono pubblicati il saggio di Luporini Leopardi progressivo e quello di Binni La nuova poetica leopardiana (1947), la critica – salvo rarissime eccezioni – suona invariabilmente la stessa corda della razio­nalità costruttiva, della partecipazione civile, della decisio­ne eroica, del progressismo politico-sociale o scientifico di Leopardi. Abbiamo così assistito al capovolgimento di ele­mentari dati obiettivi di un qualsiasi lettura non diremo ver­gine e non diremo neppure spregiudicata, ma almeno non del tutto cieca, del pensatore e del poeta. Leopardi deride, in­sieme con tutti gli altri miti del suo e del nostro tempo, "le magnifiche sorti e progressive"? Ma è di fatto un progressista e, se tale non appare immediatamente, è perché si trova su "un'onda più lunga" rispetto ai contemporanei. Attacca e demolisce la ragione? Ma è una ragione "storica", non la ragione in generale. Esalta, sotto ogni punto di vista, la splen­dida, inarrivabile superiorità dell'antico rispetto al moder­no? Ma ciò avviene in un momento in cui il pensiero non era ancora pienamente maturo e consapevole. Scrive, lui, ma­terialista puro, versi o addirittura interi canti di intonazione platonica? Sogna un mondo totalmente diverso da questo? Si tratta appunto di una semplice metafora poetica. Predica l'attività (anche se soltanto come distrazione dall'infelicità del sentimento di vita)? Ecco una prova del suo impegno co­struttivo. Canta la felicità dello stato selvaggio? È una de­nuncia del colonialismo bianco. Invidia la condizione animale, che non conosce l'intollerabile esperienza della noia? Anela alla suprema insensibilità della morte, come unico sbocco al­l'incolmabile infinità del desiderio? Non è molto più che un vizio o un vezzo di pensiero.

Una delle opere più sconvolgenti, e meno assimilabili, del pensiero e della letteratura moderni, viene, in tal modo, let­teralmente mutilata e stravolta in una lettura domestica e ras­sicurante, secondo i dettami di un wishful thinking obbliga­torio e banale.

Non apparirà allora strano se, fino a oggi, è stato difficile accorgersi non solo che l’essenza dell'opera leopardiana ri­siede nella distruttività di un illuminismo assunto o rovesciato in termini assolutamente negativi, ma che il necessario cor­relato o complemento di questa sono l’adorazione dell’illusione, dell’apparenza, dello stile, la filosofia del dimentica­re, il riso che dissolve e al quale niente resiste: perché Leo­pardi si identifica interamente con la vicenda e il dramma della più pura lucidità moderna.

Nella sua critica del valore della “verità” che si esprime, tra l'altro, in una rivoluzionaria interpretazione del senso della "caduta" originaria, concepita appunto come colpa di verità o di conoscenza, trova posto anche l'idea precisa – oggi legata al nome di Nietzsche quasi per antonomasia, ma affer­mata da Leopardi cinquant'anni prima e del resto già serpeg­giante tra la fine del Sei e gli inizi del Settecento – che soltanto nell'oblio si possa vivere e agire. Tale idea viene for­mulata nelle prime pagine dello Zibaldone, da un Leopardi appena ventunenne, nel corso di una breve meditazione sui vari modi di percepire l'esistenza, alla fine della quale le parti della ragione e della pazzia risultano interamente scambiate. Leopardi, infatti, giunge ad affermare che la ragione, intesa come lucidità totale della coscienza, conduce né più né me­no che a una pura e assoluta pazzia, mentre quell’oblio, che è l’opposto della ragione e appare dunque come una forma di pazzia, é in realtà la sola cosa saggia e ragionevole al mon­do, dal momento che esso soltanto, appunto, consente di vi­vere. È l'errore che fonda la possibilità stessa dell'esistenza, della vita, dell'agire, laddove la verità – la presenza imme­diata e ininterrotta della verità alla coscienza – li anniente­rebbe all'istante. Ma seguiamo fin dall'inizio lo sviluppo di questa riflessione, affidata a poco più di due pagine del gennaio 1820.

Ci sono, dice Leopardi,

tre maniere di veder le cose. L'una e la più beata, di quelli per i quali esse hanno anche più spirito che corpo e voglio dire agli uomini di genio e sensibili, ai quali non c'è cosa che non parli all'immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll'infinito e coll'uomo, e una vita indefinibile e vaga, in som­ma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell'animo loro. L'altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza avere molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell'im­maginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, per esempio alla scienza, alla politica ecc. ecc.) che senza essere sublima­ti da nessuna cosa, trovano però in tutte una realtà, e le considera­no quali elle appariscono, e sono stimate comunemente e in natu­ra, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandez­za, e senza dar gran risalto al sentimento dell'esistenza, riempie però la vita di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uni­forme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circo­stanze dalla nascita al sepolcro (Zib. 102-103).

Oltre a queste due maniere di vedere, entrambi felici ma false (o entrambe false ma felici), esiste una terza,

la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno né spirito né corpo, ma son tutte vane e sen­za sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l'esperienza e la lugubre cognizione delle co­se, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza toc­care la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuo­to, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla. vita per modo che senza esse non è vita (Zib. 103).

Responsabile di quest'ultimo modo di vedere è la ragione, la quale – si badi bene – non viene qui considerata come in altre, successive pagine dello Zibaldone in quanto organo in­sufficiente o falso della conoscenza, in quanto fonte di veri­tà positive ma, tutto all'opposto, proprio in quanto capa­cità di conoscenza vera, certa e profonda, lucidità pura che svela il fondo stesso delle cose nel loro nulla abissale. Ma la ragione, che mostra all’uomo la verità, non solo – natural­mente – non dà né la felicità né una minore infelicità, ma non consente neppure quella "saviezza" che volgarmente si crede un attributo indissociabile dalla ragione stessa. Anzi, chi avesse la percezione continua e totale del nulla manifestato dalla ragione, sarebbe necessariamente e assolutamen­te pazzo: la verità delle cose è intollerabile alla coscienza e in­ghiotte il soggetto che la pensa fino in fondo. Viceversa, è nell’oblio (Leopardi dice "distrazione" e "dimenticanza") della verità che il soggetto ritaglia, fonda e conserva l’orizzonte di possibilità della propria vita e dei propri atti. Leggiamo:

E qui voglio notare come la ragione di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consi­stere quello dell'uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero della ragione. Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi go­vernare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede qua­li sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tut­tavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia più ragione­vole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai come si dice volgarmente con questa sola, e co­me essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia (Zib. 103-104).

Ma, al di là di queste testimonianze esplicite, il dilemma mortale, la vertigine, che contrappone la verità all'esisten­za, la lucidità alla vita e alla storia, accompagna tutta la ri­flessione di Leopardi, ne scava e ne definisce l'ambito pro­prio e specifico, proiettandola fin dall'inizio nell'unica dimen­sione credibile del pensiero: quella dell'Impossibile.

Si comprende allora come una simile esperienza non po­tesse articolarsi e trascorrere se non tra quei due poli fonda­mentali e inseparabili che sono la negazione e contempora­neamente la difesa dell'illusione, come attesta –del resto – una serie intera di riflessioni disseminate nello Zibaldone fin dalle prime pagine. Sarà sufficiente richiamarne alcune:

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni (Zib. 51).

Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che, es­sendo tutto il reale un nulla, non v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni (Zib. 99)

Come i più ardenti zelatori delle illusioni sono forse quelli che ne conoscono e sentono più vivamente e universalmente la vanità, così i loro più ardenti impugnatori son quelli che non la conoscono be­ne, o se la conoscono bene, non la sentono intimamente e in tutta l'estensione della vita; cioè la conoscono in teoria, ma non in pra­tica (Zib. 325).

Le illusioni non possono essere condannate, spregiate, perseguita­te se non dagl'illusi, e da coloro che credono che questo mondo sia o possa essere veramente qualcosa, e qualcosa di bello (Zib. 1715: 16 Settembre 1821).

Non pessimismo e progressismo, ma nichilismo e illusione. Solo chi non è illuso sul mondo ama l’illusione, tutti gli altri ne sono da sempre i nemici giurati. E la poesia leopardiana incarna appunto questo pa­radosso apparente, è poesia dell'illusione nata nel vuoto di tutte le illusioni, profumo della ginestra che si espande nel luogo della rovina. La grande massi­ma di Nietzsche, secondo la quale lo spirito più profondo deve anche essere il più frivolo, descrive un limite che, intellet­tualmente, Leopardi ha già varcato. Non c'è in lui, beninte­so, nessuna posa e nessun compiacimento, nulla di "voluto", insomma, ma una pura, severa, ineludibile necessità del pen­siero ed è in nome di questa che egli ha conosciuto, con un anticipo di alcuni decenni, quell'esperienza radicale e defi­nitiva che non si deve temere di chiamare col termine di "este­tismo" perché solo gli idioti possono fraintenderne il senso. Prima ancora di Nietzsche, Leopardi ha fatto coincidere la profondità con la superficie quando ha interpretato tutta l’antichità sub specie aestheticae, riducendone il pensiero a uno spettacolare fenomeno di stile e trasformando la "serietà" filosofica e morale di Socrate in un caso particolare del sofistico. È tutta la gnoseologia occidentale che, nel contempo, viene messa in causa, perdendo le sue credenziali idealistiche, pri­ma fra tutte quella del "disinteresse" e della "profondità" teoretica. La conoscenza è un'irradiazione, dell'amor proprio, che non vuole il vero, ma il piacere. Il vero come tale è indif­ferente, quando non è nefasto, per l'uomo, e l'Adamo ante­riore alla caduta è l'animale felice che non conosce il vero, ma solo l'opinione. E quando Leopardi – estese le cause del male dall'ambito della civiltà a quello della natura stessa, del­l'ordine originario e intrinseco delle cose – dichiarerà di vo­lersi dedicare soltanto alla speculazione del vero (come nel l'epistola Al conte Carlo Pepoli o già nella lettera al Gior­dani del 6 Maggio 1825), questo vero non. assumerà nes­sun connotato positivo o costruttivo: sarà negazione assolu­ta, distruzione pura, che viene a investire innanzitutto l'u­niverso dell'utile, incarnazione e regno della scienza.

La polemica di Leopardi contro il dominio dell'economia nel mondo contemporaneo è un momento della polemica ge­nerale contro la razionalizzazione e la spiritualizzazione mo­derna, ossia contro le verità positive, come fondamento del­l'esistenza e della felicità individuale e collettiva. La sola co­sa utile al mondo è l'inutile: esso soltanto conferisce un senso, un conforto, un profumo al deserto dell'esperienza stori­ca, esso soltanto lascia filtrare una luce dell'Eden da sempre perduto. In tutta l'opera leopardiana, ma soprattutto in quella più tarda - dal Pensiero dominante alla Palinodia al Marchese Gino Capponi, dalla lettera al Giordani del 24 Luglio 1828 al preambolo al giornale letterario Lo Spettatore fiorentino del 1832 - risuona questa appassionata apologia dell'inutile, e di quell'inutile per eccellenza che è la letteratura. Fra tutti i li­bri prodotti nel "gravissimo secolo decimonono" (filosofici, storici, morali, economici ecc.) i soli che a Leopardi paiano indispensabili sono quelli che un antico pregiudizio defini­sce superflui, credendo di bollarli a morte e non sapendo in­vece di coglierne, in questo modo, la più potente radice di vitalità: i libri poetici. Perché la vera poesia, per quanto di­venuta rarissima, è l'unica cosa della quale si possa dire "quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita" (Zib. 4450: 1 Febbraio 1829). E come. la sola vera utilità è quella che si ricava dal­l’inutile, così il piacere o la felicità non è per Leopardi, co­me poi per Nietzsche, nient’altro che una sovrana capacità di di­menticare.

Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime anco­ra o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abban­dono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d’ogni cosa. E generalmente non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà! (Zib. 4074: 20 Aprile 1824).

All’”infinita vanità del tutto” e ai dissennati e orrendi miti che la mascherano, non resta che contrapporre un oblio to­tale, un riso che non risparmia nulla e nessuno, e la bella vanità dei sogni, delle illusioni, delle frivolezze. Un pensie­ro dello Zibaldone, che la critica si guarda bene dall'allegare alle proprie "gravissime" analisi, dice:

Tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorché le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze (Zib. 3990: 17 Dicembre 1823).

Questa massima, che sembra quasi mescolare insieme le voci di Qohelet e di Oscar Wilde, non è opposta ma conse­guente e complementare alla "filosofia dolorosa" del Trista­no e potrebbe anzi costituire, insieme con quel Dialogo estre­mo, il testamento stesso di Giacomo Leopardi.