Linee di tendenza della poesia primonovecentesca

 

1. Premessa

I primi decenni del  Novecento  segnarono il prevalere, in campo poetico, almeno da parte del mondo accademico e scolastico, della triade CARDUCCI - PASCOLI - D'ANNUNZIO (le “tre corone” assunte a simbolo dell’Italia rinnovata così come, un secolo prima,  Parini - Alfieri - Foscolo erano stati considerati il simbolo del rinnovamento civile degli Italiani); ma, dietro di loro, una gran folla di giovani poeti premeva per un più deciso e integrale rinnovamento della poesia, vivendo in modo più autentico e drammatico  la crisi decadente della società intera: crepuscolari, futuristi, poeti puri, ermetici interpretarono in modo diverso il tormento angoscioso della solitudine e dell’alienazione, seguiti poi dai neorealisti, che vollero invece impegnarsi in una presa di coscienza più attiva dei problemi sociali, e da vari gruppi di neo-avanguardia, che hanno avanzato - e tuttora avanzano - proposte di rinnovamento della poesia a volte stravaganti, a volte suggestive, a volte interessanti e significative.

Nel campo della narrativa e del teatro, mentre da un lato ci fu la riscoperta e la rivalutazione dei “veristi” (specialmente del Verga ad opera di Luigi Russo), dall’altro si  ebbe  l’affermazione sempre più larga ed a livello europeo dell’opera di Pirandello e Svevo, mentre la critica ufficiale e di regime osannava sempre più al D’Annunzio. Ma nel frattempo andava sviluppandosi una letteratura di opposizione al fascismo che poi sfociò in aperta denunzia della tirannide e in una commossa rievocazione della Resistenza e si impegnò nell’opera di riedificazione democratica del Paese (neorealismo). Col diffondersi poi di nuove branche nell’ambito delle scienze sociali e con l’adozione della gestione del rinnovamento da parte di istituti (partiti politici, sindacati, associazioni di categorie, movimenti di opinioni, ecc.) sempre più largamente rappresentativi dell’opinione pubblica, la narrativa ed il teatro si sono in gran parte liberati del peso di un impegno sociale diretto e si sono rivolti maggiormente a ridefinire la propria identità ed il proprio ruolo, approdando all’elegia o imboccan­do strade varie di sperimentalismo.

 

2. Le riviste

In tutto il complesso panorama letterario del Novecento gran rilievo ha avuto l’attività di numerose “riviste”, che hanno dato vita ad un dibattito culturale estremamente vasto ed appassionato. 

Fondatori e animatori delle riviste più impegnate, tutte pubblicate a Firenze, furono Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. Questi diedero vita a “Il Leonardo” (1903-1907) con l’intento di aggregare un gruppo di giovani intellettuali, “desiderosi di liberazione, vogliosi d’universalità, anelanti ad una superiore vita intellettuale”, per contrastare il nascente socialismo in politica, affermare il pragmatismo in campo filosofico (Papini) e il misticismo nel campo dell’arte cui si assegnava il compito di «rivelazione di una vita profonda» (Prezzolini). Entrambi gli scrittori fondarono poi “La Voce” (1908-1916), accentuando la polemica antisocialista ed antidemocratica, inneggiando alla conquista della Libia e proclamando la necessità dell’intervento italiano nel primo conflitto mondiale, ma anche auspicando la nascita di una nuova figura di letterato che ripudiasse l’estetismo dannunziano e si calasse nei problemi quotidiani della vita nazionale (dopo il 1914 la direzione della rivista passò a Giuseppe De Robertis che ne fece un organo esclusivamente letterario). Nel 1913 il Papini, abbandonando “La Voce”, fondò con Ardengo Soffici “Lacerba”, organo quasi ufficiale del futurismo, che ovviamente annoverò tra i redattori il fondatore stesso del nuovo movimento letterario, Filippo Tommaso Marinetti.

Ci sono ancora da ricordare due riviste di ispirazione  quasi esclusivamente politica: la prima, “Il Regno”, fondata nel 1903 da Enrico Corradini, approfondì la lotta al socialismo e fu fautore dell’espansionismo coloniale; la seconda, “L’Unità”, fondata nel 1911 da Gaetano Salvemini, rappresentò l’esatto contrario, ergendosi a paladino delle libertà democratiche contro il nazionalismo ed il colonialismo.

 

3. Crepuscolarismo

Crepuscolari furono definiti dal critico Giuseppe Antonio Borgese quei poeti che avvertirono la crisi spirituale del tempo come un crepuscolo nell’imminenza del tramonto, che non vollero e non seppero allacciare alcun rapporto concreto e costruttivo con la realtà sociale, che rifiutarono ogni aggancio con la tradizione culturale. Questi poeti si ripiegarono su se stessi a compiangersi d’esser nati e, in attesa della morte, cantarono gli aspetti più banali e insignificanti del quotidiano, avvolgendo uomini e cose in una nuvola di malinconia. Privi di fede e di speranza, i crepuscolari si rifugiarono nel grigiore delle cose comuni, quasi col pudore di chi vuol nascondersi agli occhi degli altri per non farsi veder piangere. Tra di loro annoveriamo Marino Moretti, Corrado Govoni, Fausto Maria Martini, ma le voci più autentiche e significative sono quelle di Sergio Corazzini e Guido Gozzano.

Sergio Corazzini nacque a Roma nel 1887 e visse una infanzia assai triste e in assoluta povertà per il fallimento del padre. Poco più che adolescente fu costretto ad impiegarsi in una compagnia di assicurazioni per far fronte alle più indispensabili necessità della vita, vedendo così crollare ad uno ad uno tutti i sogni dell’infanzia. Ammalatosi di tisi, morì a soli venti anni. Dalla sua unica raccolta di poesia, citiamo la prima ed ultima strofa di “Desolazione del povero poeta sentimentale”:

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: io non ho che lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
..............................
Oh, io sono veramente malato!
E muoio un poco ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

 

Guido Gozzano nacque ad Aglié, in provincia di Torino, nel 1883. Abbandonati gli studi di giurisprudenza, si dedicò interamente alla letteratura  e  pubblicò due  raccolte di versi, “La via del rifugio” (1907) e “I Colloqui” (1911). L'opera sua più importante, però, è il libro in prosa che descrive il suo viaggio in India, ove era andato nella speranza di guarire dalla tisi: “Verso la cuna del mondo”. Morì a soli trentatré anni, lasciando ancora da pubblicare due raccolte di novelle (“L’ultima traccia” e “L’altare del passato”) e due raccolte di fiabe (“La principessa si sposa” e “I tre talismani”).

«La sua - avverte il Pazzaglia -  potrebbe essere  chiamata poesia dell’assenza, della vita mancata, d'una stanca aridità, conseguita al crollo dei miti fastosi romantici o dannunziani e approfondita da quel suo sentirsi morire giorno per giorno. Egli resta perplesso davanti all’assurdità della vita e del suo stesso io

(è strano
fra tante cose strambe
un coso con due gambe
detto guido gozzano),

 

ed esprime il suo tormento ora abbandonandosi ad un cinismo spinto fino alla crudeltà, ora insistendo sulla propria disperata aridità sentimentale».

Peculiare alla poesia del Gozzano è quella vena  sottile ironica con cui tenta celare la sua profonda desolazione a causa di una esistenza che gli appare inaccettabile e che egli  non sa  in  alcun modo ravvivare. Da uno dei “Colloqui”, “L’amica di nonna Speranza”, citiamo la terza parte:

 

Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo,
ligio al passato, al Lombardo-Veneto, all'Imperatore;
giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,
ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna...
"Baciate la mano alli Zii" -dicevano il Babbo e la Mamma,
e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.
"E questa è l'amica in vacanza: madamigella Carlotta
Capenna: l'alunna più dotta, l'amica più cara a Speranza".
"Ma bene... ma bene... ma bene... " -diceva gesuitico e tardo
lo Zio di molto riguardo- "... ma bene... ma bene... ma bene...
Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...
Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro... ".

"Gradiscono un po' di moscato?" "Signora Sorella magari...".
E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.
"...ma la Brambilla non seppe...". "E' pingue già per l'Ernani... "
"La Scala non ha più soprani...". -"Che vena quel Verdi Giuseppe".
"...nel Marzo avremo un lavoro alla Fenice, m'han detto,
nuovissimo: il Rigoletto. Si parla d'un capolavoro".
"...Azzurri si portano o grigi?. -"E questi orecchini? Che bei
rubini! E questi cammei... " - "la gran novità di Parigi...".
"...Radetzki? Ma che? L'armistizio... la pace, la pace che regna...".
"...quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!".
"E' certo uno spirito insonne, e forte, e vigile e scaltro..."
"E' bello?". -"Non bello: tutt'altro". -"Gli piacciono molto le donne...".
"Speranza!" (chinavansi piano, in tono un po' sibillino)
"Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano!".
Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto
inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.

 

4. Futurismo

Futuristi si collocarono agli antipodi dei crepuscolari. Anch’essi rifiutarono la tradizione ed il conformismo borghese, ma in nome di un dinamismo vitale  che  doveva rispecchiare la  nascente civiltà tecnologica e industriale. Affascinati soprattutto dalla velocità imposta dalle macchine al ritmo della vita, essi esaltarono il rischio, l'avventura, il vigore, il fascino dell'ignoto da scoprire, ed affermarono che sulla Terra non poteva esserci posto per i deboli e per gli inetti: ecco perché definirono la guerra la “sola igiene del mondo”, perché essa spazza via le scorie dell’umanità e seleziona i forti da destinare ad una vita sempre più fiera e veloce.

A differenza dei crepuscolari che vissero appartati e quasi incogniti a se stessi, i Futuristi si raccolsero in una vera e propria “scuola”, stilarono un ben preciso programma (cfr. “Manifesto del Futurismo” e “Manifesto tecnico”), organizzarono una ben nutrita pubblicità intorno alle loro idee, servendosi di riviste (“Lacerba”), ma soprattutto di incontri-dibattiti che effettuavano periodicamente nei teatri con tono volutamente provocatorio nei confronti del pubblico.

Fondatore e caposcuola del Futurismo fu Filippo Tommaso Marinetti.

Ed ora un esempio di   parole in libertà  tratto da “ZangTumb Tumb” (Assedio di Adrianopoli) dello stesso Marinetti:

 

«Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrrrare spazio con un accordo ZZZANG TUMB TUM ammutinamento di cento echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all'infiiiiiinito del centro di quel zzzang tumb spiaccicato (ampiezza 50 Kmq.) balzare scoppi tagli pugni batterie tiro rapido Violenza ferocia re-go-la-ri-tà questo basso grave scandere strani folli agitatissimi acuti della battaglia».

 

Aderirono al Futurismo, sia pure per poco, Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi.

 

5. Poesia pura

Crepuscolari e Futuristi non hanno lasciato documenti poetici di grande rilievo, ma la resa senza condizioni dei primi di fronte alla crisi morale e la violenta rivolta stilistica dei secondi favorirono senza dubbio i tentativi che altri fecero sia per superare la crisi che per realizzare una poesia veramente nuova e vaccinata contro ogni possibilità di un ennessimo classicismo. Sono costoro i cosiddetti Poeti Nuovi che diedero vita alla Poesia pura, da cui derivò l’Ermetismo.

I Poeti nuovi ripudiano tanto la  solennità di una poesia vaticinante che si illudeva di poter riscattare l’umanità dalle tenebre del degrado morale (Carducci), quanto la prosaicità avvilente di una poesia ridotta a cantare le piccole insignificanti avventure del quotidiano, nutrita di una desolante rassegnazione alla morte (Crepuscolari). Per essi la poesia non deve rispecchiare alcuna realtà, nobile od umile che sia, in quanto è essa stessa creatrice di “realtà”, va cioè considerata un universo in sé compiuto ed autonomo. Essi non hanno miti da illustrare e propagandare, ma «tendono alla sincerità assoluta della testimonianza esistenziale, approfondita dallo scavo nella coscienza» (Pazzaglia). Per questo essi rifiutano i nessi logici fra le varie immagini, il discorso coerente, il significato corrente delle parole: cioè tutto quanto l’umanità ha inventato per decifrare ed esprimere la realtà che cade sotto gli occhi dell’uomo storico. «...il poeta constata che non ha più certezze o miti da proporre col canto a gola spiegata, oratorio e parenetico, ma può salvare qualche relitto di un naufragio, può solo offrire qualche storta sillaba e secca: l’adozione di nuovi moduli espressivi è quindi conseguenza di una nuova posizione etica» (Guglielmino).

In effetti i Poeti puri depurano la parola di tutti i significati che le si sono sovrapposti durante il suo corso storico e cercano di coglierla nella sua primitiva verginità, usandola più per le sensazioni primigenie che riesce ad evocare e per il suono che produce che per il suo significato attuale. Inoltre fanno largo impiego dell'analogia per ottenere quell’essenzialità indispensabile a chi ha rinnegato ogni espressione logico-discorsiva. Barberi-Squarotti così commenta un esempio di analogia tratto da Ungaretti:

Tornano in alto
ad ardere le favole

 «...non è più  possibile ricostruire i passaggi di fantasia e di immagini che hanno fatto di quelle stelle le favole, ma rimane viva e chiara la suggestione di lontananza, di sogno e di speranza (forse di favole udite alla luce delle stelle, o di illusioni cadute che tornano a risplendere nel cielo della vita) che l’analogia, l’identificazione dei termini hanno voluto creare». Con ciò il critico ci vuol fare intendere che è quasi impossibile voler ricostruire il percorso effettuato dalla fantasia del poeta, ma non è impossibile stabilire intuitivamente un’intesa, una corrispondenza con l’emozione provata dal poeta, capace di suscitare in noi una emozione, magari anche di natura diversa, ma non per questo priva di quella misteriosa carica che riuscirà a far vibrare le corde della nostra commozione.

Tra i rappresentanti più significativi della  Poesia pura ricordiamo Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale ed Umberto Saba.

 

6. Ermetismo

Ermetici furono definiti da  Francesco Flora  (che evidentemente alludeva ad una pratica mistico-misterica dell’antichità, detta appunto Ermetismo)  quei poeti che tra gli  anni 1930-1945  si riunirono in una vera e propria “scuola” con l'intento di fare una poesia totalmente staccata dal contingente, magica e innocente espressione dell’ “essere” ricercato con uno scavo estenuante nel profondo dell'inconscio. Essi inoltre portarono alle estreme  conseguenze l’uso dell’analogia col risultato di apparire incomprensibili tranne  che  ad una élite di iniziati. Questi poeti riconobbero come maestri l’Ungaretti ed il Montale, ma rivolsero la loro attenzione anche più lontano, a Mallarmé  e Valéry.

Tra gli Ermetici ricordiamo i poeti del gruppo fiorentino, Mario Luzi, il più importante, Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi. Oltre a questi meritano di essere citati Alfonso Gatto, Libero de Libero, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli e Sergio Solmi.

Il più significativo di tutti è però Salvatore Quasimodo, Premio Nobel 1959 per la letteratura, che dopo la seconda guerra mondiale si staccò dagli ermetici per dedicarsi ad una poesia che aprisse un colloquio più esteso e più elementare col pubblico.

 

Copyright © 1999 Luigi De Bellis