Il nome della rosa: caccia al tesoro

(a cura di Chiara Frugoni)

Mostri di pietra

Umberto Eco si è divertito a mescolare le sue fonti medievali, nonché a fondere nei modi più vari personaggi cartacei e fittizi ad altri, del nostro tempo o della nostra tradizione letteraria. Il terribile bibliotecario cieco Jorge da Burgos ricorda, anche per assonanza, Jorge Luis Borges: anche lui volle per tutta la vita esser bibliotecario e vi riuscì, ma quando ormai era già cieco. Scrisse con amara ammirazione non della cattiveria ma della magnifica ironia di Dio che gli aveva dato, a un tempo, i libri e la notte. Inoltre la Biblioteca del Nome della rosa in cui ci si perde, in cui sembra essere presente tutto lo scibile richiama il racconto di Borges La biblioteca di Babele dove sono presenti tutti i libri possibili, sogno di studioso e ancor più di bibliotecario.
Jorge da Burgos parla con le parole di San Bernardo da Chiaravalle (che si possono leggere in una sua famosa lettera) quando rimprovera aspramente il diffondersi dei mostri in capitelli e in miniature: orride amenità che privano i poveri di quel denaro convogliato a produrle e distolgono i monaci dalla preghiera e dalla meditazione (testo 1).

 


Il leone, simbolo dell'evangelista Marco, in una miniatura de "I Vangeli di Echternach"

Sherlock Holmes e la sua maschera

Il romanzo racconta della visita che Adso di Melk, giovane novizio benedettino, compie insieme al suo maestro, il dotto e intelligentissimo francescano Guglielmo di Baskerville, a un’abbazia di cui non è svelato il nome; durante il breve soggiorno accadono avvenimenti terribili e un seguito impressionante di assassini a catena. Guglielmo dà prova di grande acume e fa pensare a Sherlock Holmes per molte caratteristiche: capacità deduttiva fondata sull’osservazione e l’analisi, amore per le monografie più strampalate, immensa fiducia in se stesso e un interesse febbrile a capire un caso, a risolverlo più come una prova di abilità che come un aiuto a un essere umano.
Nei numerosissimi casi risolti (compreso Il mastino dei Baskerville) Sherlock Holmes usava, all’occorrenza, travestirsi fino a diventare, eccettuato forse per il lettore, irriconoscibile: perfetto quindi riscoprirlo in questo travestimento medievale. Guglielmo di Baskerville è accompagnato dal fido Adso-Watson che tratta sempre come uno scolaro e da cui viene ascoltato come riverito maestro, con il dovuto stupore e rispetto.

 


Amanuensi al lavoro: miniatura dai "Vangeli di Echternach"

Le sette profezie

Agatha Christie ha invece offerto a Umberto Eco un altro spunto per la trama del romanzo. Spesso nei gialli della scrittrice si incontrano filastrocche, serie numeriche o letterali che diventano una specie di ritornello secondo cui si muovono persone, cose, eventi, in maniera preconizzata. Sembrerebbe un apparente amore dell’ordine che in qualche modo domina il caos scatenato dalla violenza dell’assassinio, come se fosse stato già tutto scritto e stabilito: si pensi ai Cinque piccoli porcellini, ai Dieci piccoli indiani. Nel Nome della rosa le sette profezie apocalittiche paiono spiegare l’ordine degli omicidi, mentre in realtà accade l’inverso, e cioè la credenza che sia la serie di profezie a determinare gli omicidi fa sì che l’assassino la sfrutti e la corrobori.
Il trucco delle pagine avvelenate, infine, è un espediente nell’ambito del poliziesco; apparve anche su uno dei primi numeri di Diabolik. Umberto Eco non ha però mischiato soltanto personaggi; ha anche combinato, con lo stesso gusto, le immagini: immagini di cui tace l’indicazione precisa, ma di cui dà un’attenta e partecipe descrizione, tale da permettere al lettore di sorridere a sua volta, scoprendo il gioco.

 


Il miracolo di Sisinnio, affresco a S.Clemente, Roma

Il timpano di Moissac

Cominciamo dalla sosta di Adso che ammira un grande complesso scultoreo. Umberto Eco ne tace il nome ma noi sappiamo che il giovane novizio si trova davanti al meraviglioso portico sud dell’abbazia di Moissac, dipendente dall’abbazia madre di Cluny. Tutto il racconto è ambientato per l’appunto in un’immaginaria abbazia cluniacense, dove la magnificenza delle sculture, delle pitture e degli arredi liturgici è concepita come mezzo per rendere gloria a Dio. Il timpano di Moissac fu scolpito al tempo dell’abate Rotgerius (1115-1131) la cui figura, con il nome che l’identifica, si trova sul capitello di una colonna del muro sud del portico dell’abbazia.
Mostra Cristo coronato in maestà con i simboli dei quattro evangelisti, due angeli, e i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse. Le sculture illustrano letteralmente i versetti del quarto e quinto capitolo dell’Apocalisse (IV, 2-7 e V, 1; V, 8), ma con alcuni cambiamenti. Rispetto al testo biblico, nel timpano di Moissac mancano le sette lampade che bruciano davanti al trono; mancano i due serafini a sei ali, sostituiti da due semplici angeli; ugualmente i quattro animali non hanno né sei ali né i numerosi occhi necessari per rispettare fedelmente il testo; e seguono piuttosto nella disposizione intorno al trono di Dio la visione di Ezechiele.
Inoltre sono un’innovazione il gesto benedicente e il libro chiuso senza sigilli di Dio, un Dio che, come abbiamo già detto, è in realtà Cristo con il nimbo crucifero: lo scultore ha mirabilmente fuso la visione teofanica di Giovanni alla fine dei tempi con l’azione redentrice del Salvatore diffusa attraverso le parole dei Vangeli. Il timpano gigantesco è sostenuto da un’architrave di circa sei metri che al centro riposa su un pilastro di tre metri e mezzo di altezza dove si avvitano a coppie leoni e leonesse di mirabile eleganza.

 


Lo stipite della porta Sud della chiesa di St. Pierre, a Moissac

I ventiquattro vegliardi

Ecco poi sfilare sotto il trono divino i ventiquattro vegliardi (testo 2).
Lo sguardo di Adso segue una traiettoria gerarchica, partendo dal vertice, sia in senso spaziale che figurato. È attratto dagli occhi dell’Assiso – dove si concentra l’essenza del messaggio apocalittico, la severità dell’imminente giudizio – poi si sofferma sui capelli, la barba e la corona, si sposta sulla tunica, osserva la mano sinistra che regge il libro (tutto ruota intorno ai libri nel romanzo!) e si chiude sulla destra che chiama e condanna.
Poi Adso indugia sulla raffigurazione degli evangelisti attraverso il loro simbolo e infine scende ai ventiquattro piccoli re, quindi ancora più in basso (testo 3):
Adso non sa darsi una risposta ma trova pace nel contemplare altre figure disposte sul pilastro, gli eleganti e malinconici Geremia e Isaia, (testo 4).

 

Isaia, chiesa di St. Pierre a Moissac

 

I mosaici di San Vitale a Ravenna

Eco mentre scriveva aveva davanti a sé una riproduzione dei meravigliosi mosaici di S. Vitale a Ravenna (parete nord e sud del coro, fra il 532 e il 547) e ha minuziosamente illustrato la scena dell’entrata di Giustiniano e Teodora nella chiesa stessa con sontuose offerte: l’imperatore accompagnato da dignitari, armati e membri del clero; l’imperatrice accompagnata da dignitari e dame. Questi mosaici splendono per la raffinata policromia che fa brillare sete e gioielli del corteo che sembra sfilare lento davanti a chi osserva. L’ordine impartito in sogno dall’abate è invece la citazione letterale di una scritta che campeggia in uno degli affreschi (sec. XI) della chiesa di S. Clemente a Roma e si riferisce a un miracolo. L’empio Sisinnio vuole fare imprigionare San Clemente ma i servi, impazziti, trascinano alcune colonne invece del corpo del santo e dei suoi fedeli. Sisinnio infuriato urla: “Fili dele pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto colo palo, Carvoncelle!”: questa frase, con la sua colorita imprecazione è uno dei primissimi monumenti della lingua italiana e segna il passaggio dal latino al volgare.
Di nuovo meraviglia prova Adso, mista a diffuso disagio e quasi paura, nell’ammirare, questa volta nella realtà, alcune miniature presenti nella biblioteca di cui il venerabile Jorge aveva interdetto l’accesso. Eco mette in mano al giovane due famosissimi manoscritti delle isole britanniche: il Libro di Durrow del VII secolo (e qui l’attenzione di Adso è attratta dalla strana immagine di un uomo che rappresenta l’evangelista Matteo), e i Vangeli di Echternach dell’VIII secolo (e qui Adso è attratto dalla metallica immagine di un leone ruggente che rappresenta l’evangelista Marco). (testo 5)

 

L'evangelista Matteo in una miniatura del Libro di Durrow

 

TESTO 1 "Conosco l’argomento! E ammetto con vergogna che è stato l’argomento principe del nostro ordine, quando gli abati cluniacensi si battevano contro i cistercensi. Ma San Bernardo aveva ragione: a poco a poco l’uomo che rappresenta mostri e portenti di natura per rivelare le cose di Dio per speculum et in aenigmate, prende gusto alla natura stessa delle mostruosità che crea e si diletta di quelle, e per quelle, né vede più che attraverso quelle. Basta che guardiate, voi che avete ancora la vista, ai capitelli del vostro chiostro – e accennò con la mano fuori dalle finestre, verso la chiesa – sotto gli occhi dei monaci intenti alla meditazione, cosa significano quelle ridicole mostruosità, quelle deformi formosità e formose difformità? Quelle sordide scimmie? Quei leoni, quei centauri, quegli esseri semiumani, con la bocca sul ventre, un piede solo, le orecchie a vela? Quelle tigri maculate, quei guerrieri in lotta, quei cacciatori che soffiano nel corno, e quei molti corpi in una sola testa e molte teste in un solo corpo? Quadrupedi con la coda di serpente, e pesci con la testa di quadrupede, e qui un animale che davanti pare un cavallo e dietro un caprone, e là un equino con le corna e via via, ormai è più piacevole per il monaco leggere i marmi che non i manoscritti, e ammirare le opere dell’uomo anziché meditare sulla legge di Dio. Vergogna, per il desiderio dei vostri occhi e dei vostri sorrisi!” (torna)

 

TESTO 2 “... su ventiquattro piccoli troni, rivestiti di vesti bianche e coronati d’oro. Chi aveva in mano una viella, chi una coppa di profumi, e uno solo suonava, tutti gli altri rapiti in estasi, il volto rivolto all’Assiso, di cui cantavano le lodi, le membra anch’esse contorte come quelle degli animali, in modo da poter tutti vedere l’Assiso di cui cantavano le lodi, ma non in modo belluino, bensì con movenze di danza estatica – come dovette danzare Davide davanti all’arca – in modo che dovunque fossero le loro pupille, contro la legge che governava la statura dei corpi, convergessero nello stesso fulgidissimo punto…”. (torna)

 

TESTO 3 “Ma, mentre l’anima mia, rapita da quel concerto di bellezze terrene e di maestosi segnali soprannaturali, stava per esplodere in un cantico di gioia, l’occhio, accompagnando il ritmo proporzionato dei rosoni fioriti ai piedi dei vegliardi, cadde sulle figure che, intrecciate, facevano tutt’uno con il pilastro centrale che sosteneva il timpano. Cos’erano e che simbolico messaggio comunicavano quelle tre coppie di leoni intrecciati a croce trasversalmente disposta, rampanti come archi, puntando le zampe posteriori sul terreno e poggiando le anteriori sul dorso del proprio compagno, la criniera arruffata in volute anguiformi, la bocca aperta in un ringhio minaccioso, legati al corpo stesso del pilastro da una pasta o da un nido di viticci?”. (torna)

 

TESTO 4 “contorti anch’essi come in un passo di danza, le lunghe mani ossute levate a dita tese come ali, e come ali le barbe e i capelli mossi da un vento profetico, le pieghe delle vesti lunghissime agitate dalle lunghissime gambe dando vita ad onde e a volute, opposti ai leoni ma della stessa memoria dei leoni”. (torna)

 

TESTO 5 “... Il leone che vidi aveva una bocca irta di denti, e una testa finemente loricata come quella dei serpenti, il corpo immane che si reggeva su quattro zampe dalle unghie puntute e feroci, assomigliava nel suo vello a uno di quei tappeti che più tardi vidi portare dall’Oriente, a scaglie rosse e smaragdine, su cui si disegnavano, gialle come la peste, orribili e robuste trabeazioni d’ossa. Gialla era pure la coda, che si attorceva dalle terga su su sino al capo, terminando con un’ultima voluta in ciuffi bianchi e neri. Già mi ero impressionato per il leone (e più di una volta mi ero girato all’indietro come se mi attendessi di veder apparire un animale di quelle fattezze all’improvviso), quando decisi di guardare altri fogli e l’occhio mi cadde, all’inizio del Vangelo di Marco, sull’immagine di un uomo. Non so perché, esso mi spaventò più del leone: il volto era d’uomo, ma questo uomo era catafratto in una sorta di pianeta rigida che lo copriva sino ai piedi, e questa pianeta o corazza era incrostata di pietre rosse gialle. Quella testa, che fuoriusciva enigmatica da un castello di rubini e topazi, mi apparve (quanto il terrore mi fece blasfemo!) come l’assassino misterioso di cui seguivamo le impalpabili tracce. E poi capii perché collegavo così strettamente la belva e il catafratto al labirinto: perché entrambi, come tutte le figure di quel libro, emergevano da un tessuto figurato di labirinti interallacciati...”. (torna)