Testi

 

TERTULLIANUS, Apologeticum II, 1-2; VII, 1; De pallio, V, 3.  MINUCIUS FELIX, Octavius IX; XXXI.

 

In questo passo dell’Apologeticum (II,1-2) Tertulliano critica il procedimento dei giudici nei processi contro i cristiani, contro i quali, non essendo concessa la facoltà di difendersi, viene usato un trattamento che non si applica a nessun criminale, contrariamente a quanto la loro qualità di criminali imporrebbe. Il tutto contro la grande tradizione giuridica di Roma. Viene anche espressa una forte critica al procedimento messo in atto da Plinio il Giovane. 

II, 1 Si certum est denique nos nocentissimos esse, cur a vobis ipsis aliter tractamur quam pares nostri, id est ceteri nocentes, cum eiusdem noxae eadem tractatio deberet intervenire? Quodcunque dicimur, cum alii dicuntur, et proprio ore et mercenaria advocatione utuntur ad innocentiae suae commendationem. Respondendi, altercandi facultas patet, quando nec liceat indefensos et inauditos omnino damnari. Sed Christianis solis nihil permittitur loqui quod causam purget, quod veritatem defendat, quod iudicem non faciat iniustum, sed illud solum expectatur quod odio publico necessarium est, confessio nominis, non examenatio criminis: quando, si de aliquo nocente cognoscatis, non statim confesso eo nomen homicidae vel sacrilegi vel incesti vel publici hostis, ut de nostris elogiis loquar, contenti sitis ad pronuntiandum, nisi et consequentia exigatis, qualitatem facti, numerum, locum, modum, tempus, conscios, socios. De nobis nihil tale, cum aeque extorqueri oporteret quod cum falso iactatur, quot quisque iam infanticidia degustasset, quot incesta contenebrasset, qui coci, qui canes adfuissent. O quanta illius praesidis gloria, se eruisset aliquem, qui centum iam infantes comedisset!

1. In verità, se è sicuro che noi siamo quanto mai colpevoli, per quale motivo proprio da voi veniamo trattati diversamente dai nostri pari, vale a dire, gli altri colpevoli, mentre, trattandosi della medesima colpevolezza, dovrebbe intervenire uno stesso trattamento? Qualunque cosa si dica di noi, qualora lo si dica degli altri, costoro si servono della propria bocca e di un avvocato mercenario per far valere la propria innocenza. A loro viene concessa facoltà di rispondere, di replicare, dal momento che non è per niente lecito condannare senza che uno sia stato ascoltato e difeso. E invece solo ai cristiani non si permette di dire qualcosa che confuti l'accusa, che difenda la verità, che impedisca al giudice di fare qualcosa di ingiusto; no, da loro ci si aspetta soltanto ciò che è necessario all'odio pubblico, cioè la confessione del nome [di cristiano], e non l'inchiesta sul delitto, mentre invece, quando processate un colpevole, non vi contentate, per sentenziare, che egli abbia confessato il suo nome di omicida o sacrilego o incestuoso o nemico pubblico (per limitarci alle imputazioni che rivolgete a noi), ma esaminate anche le circostanze e la qualità del fatto, il numero, il luogo, il tempo, i testimoni, i complici. Quando invece si tratta di noi, nulla di tutto ciò, mentre bisognerebbe strapparci quello che con falsità si blatera: quanti infanticidi uno abbia già assaggiato, quanti incesti fra le tenebre compiuti, quali i cuochi, quali i cani presenti. O quale gloria per quel governatore che fosse riuscito a scovare qualcuno che già avesse mangiato carni di cento bambini! (torna su)

II, 2 Atquin invenimus inquisitionem quoque in nos prohibitam. Plinius enim Secundus cum provinciam regeret, damnatis quibusdam Christianis, quibusdam gradu pulsis, ipsa tamen multitudine perturbatus, quid de cetero ageret, consuluit tunc Traianum imperatorem, adlegans praeter obstinationem non sacrificandi nihil aliud se de sacramentis eorum conperisse quam coetus antelucanos ad canendum Christo et deo, et ad confoederandam disciplinam, homicidium, adulterium, fraudem, perfidiam et cetera scelera prohibentes. Tunc Traianus rescripsit hoc genus inquirendos quidem non esse, oblatos vero puniri oportere. O sententiam necessitate confusam! Negat inquirendos ut innocentes, et mandat puniendos ut nocentes. Parcit et saevit, dissimulat et animadvertict. Quid temetipsum censura circumvenis? Si damnas, cur non et inquiris? si non inquiris, cur non et absolvis? Latronibus vestigandis per universas provincias militaris statio sortitur. In reos maiestatis et publicos hostes omnis homo miles est; ad socios, ad conscios usque inquisitio extenditur. Solum Christianum inquiri non licet, offerri licet, quasi aliud esset actura inquisitio quam oblationem. Damnatis itaque oblatum quem nemo voluit requisitum, qui, puto, iam non ideo meruit poenam, quia nocens est, sed quia non requirendus inventus est.

Invece noi troviamo che anche la ricerca di noi è stata proibita. E infatti Plinio Secondo, quando era al governo della provincia, nonostante avesse condannato alcuni cristiani e altri averli indotti all’apostasia, turbato dal loro grande numero, consultò l'imperatore d'allora, Traiano, circa il modo di comportarsi in seguito, affermando riguardo i loro riti di non aver trovato, a parte l'ostinato rifiuto di sacrificare, nient’altro che delle riunioni notturne per cantare in onore di Cristo, come di un dio, e per rinsaldare la loro disciplina con la proibizione dell'omicidio, dell'adulterio, della frode, della slealtà e degli altri delitti. Al che Traiano rispose che persone di questa sorta non dovevano essere ricercate, ma che si dovevano punire solo se deferite. Oh, sentenza per necessità confusa! Dice che non si devono ricercare in quanto innocenti, ma poi ordina che siano puniti in quanto colpevoli. È clemente e poi infierisce, fa finta di non sapere e poi sa. Perché da te stesso nella censura ti avvolgi? Se condanni, perché anche non ricerchi? Se non ricerchi, perché anche non assolvi? Per la ricerca dei briganti si assegna per tutte le province un distaccamento militare; contro i rei di lesa maestà e i nemici pubblici ogni uomo è soldato: l'inquisizione si estende fino ai complici e ai testimoni. E invece solo il cristiano non è lecito ricercarlo, mentre è lecito deferirlo, quasi che la ricerca dovesse avere un altro effetto del deferimento. E quindi condannate un deferito che nessuno avrebbe voluto venisse ricercato, il quale, penso, ha meritato il castigo non perché colpevole, ma perché è stato scoperto, mentre non doveva essere ricercato. (torna su)  


Nel cap. VII, Tertulliano risponde alle accuse dei pagani di infanticidio, di incesto e di cene tiestee. Si tratta di accuse che derivano da un pregiudizio e dalla segretezza dei riti, che però è abituale per le cosiddette religioni misteriche, all’epoca molto diffuse.

VII,1 Dicimur sceleratissimi de sacramento infanticidii et pabulo inde, et post convivium incesto, quod eversores luminum canes, lenones scilicet tenebrarum, libidinum impiarum in verecundiam procurent. Dicimur tamen semper, nec vos quod tam diu dicimur eruere curatis. Ergo aut eruite, si creditis, aut nolite credere, qui non eruistis. De vestra vobis dissimulatione praescribitur non esse quod nec ipsi audetis eruere. Longe aliud munus carnifici in Christianos imperatis, non ut dicant quae faciunt, sed ut negent quod sunt. Census istius disciplinae, ut iam edidimus, a Tiberio est. Cum odio sui coepit veritas. Simul atque apparuit, inimica est. Tot hostes eius quot extranei, et quidem proprie ex aemulatione Iudaei, ex concussione milites, ex natura ipsi etiam domestici nostri. Cotidie obsidemur, cotidie prodimur, in ipsis plurimum coetibus et congregationibus nostris opprimimur. Quis unquam taliter vagienti infanti supervenit? Quis cruenta, ut invenerat, Cyclopum et Sirenum ora iudici reservavit? Quis vel in uxoribus aliqua inmunda vestigia deprehendit? Quis talia facinora cum invenisset, celavit aut vendidit ipsos trahens homines? Si semper latemus, quando proditum est quod admittimus?

Si dice che siamo scelleratissimi a motivo di un rito d'infanticidio e del cibo di qui preso e dell'incesto compiuto dopo il banchetto, incesto che dei cani, dissipatori -si capisce- delle tenebre, agevolano, rovesciando i lumi, per stendere un velo di verecondia sulle empie libidini. Lo si dice, tuttavia, di noi, sempre: ma non vi preoccupate di mettere in chiaro ciò che da tanto tempo di noi si dice. Perciò o mettetelo in chiaro, se ci credete, oppure non credeteci, se non lo mettete in chiaro. Da questa vostra finzione si eccepisce contro di voi che non esiste quello che neppure voi osate mettere in chiaro. Al carnefice imponete nei riguardi dei cristiani un ben diverso ufficio: devono dire non quello che fanno, ma devono negare quello che sono. L'origine di questa dottrina, come già abbiamo esposto, risale al tempo di Tiberio. La verità ha avuto origine insieme con l'odio contro di essa: appena appare, è nemica. Tanti sono i suoi nemici, quanti gli estranei: e propriamente i Giudei per ostilità, i soldati per ricatto, quelli stessi di casa nostra, anche, per natura. Tutti i giorni siamo assediati, tutti i giorni traditi, spessissimo nelle nostre stesse riunioni e adunanze veniamo sorpresi. Chi mai è giunto mentre un bimbo, trattato al modo che voi dite, vagiva? Chi ha mostrato al giudice le bocche insanguinate di questi Ciclopi e Sirene come le aveva trovate? Chi ha colto nella propria sposa qualche immondo segno? Chi, nonostante avesse scoperto tali misfatti, li ha tenuti nascosti o li ha venduti trascinando davanti ai tribunali gli autori stessi? Se noi rimaniamo sempre nascosti, quando mai è stato rivelato ciò che commettiamo? (torna su)


La separazione dalla vita associata e l’isolamento dal mondo sono espressi in questo passo, in cui Tertulliano dà la parola al pallio. Lo stile è stringato e nervoso: brevi frasi si susseguono paratatticamente, rilevate dall’inizio dall’anafora (di nihil e di nulla), poi dalla paronomasia congiunta con l’omoteleuto (odoro, adoro). L'asindeto scandisce, con il susseguirsi dei non, l'ostinato rifiuto di ogni rapporto con un mondo il cui agitarsi per vanità assume un aspetto grottesco grazie alla scelta dei verbi: si notino in particolare contundo («ammacco, faccio pezzi») ed elatro («abbaio»). L'uso insistente delle metonimie (rostra e praetoria per indicare il potere; cancelli, subsellia, iura per i tribunali) costringe il lettore a uno sforzo di attenzione che dà risalto ai concetti; l'inserzione dei canales subito dopo i rostra e i praetoria, in forte e studiata antitesi con i cancelli, introduce una nota di comicità. Infine il poliptoto curo... curem e le due sententiae finali contrapposte, la seconda delle quali cupamente respinge ed annulla la prima, sono il sigillo dell’isolamento polemico, e non privo di astio, cui si condanna il vecchio Tertulliano.

5, 3. Ego nihil foro, nihil campo, nihil curiae debeo, nihil officio advigilo; nulla rostra praeoccupo, nulla praetoria observo; canales non odoro, cancellos non adoro; subselia non contundo, iura non conturbo; causas non elatro, non iudico, non milito, non regno: secessi de populo. In me unicum negotium mihi est: nisi aliud non curo quam ne curem. Vita meliore magis in secessu fruare quam in promptu. Sed ignavam infa­mabis: scilicet patriae et imperio reique vivendum. Erat olim ista sententia: “Nemo alii nascitur moriturus sibi”».  

Io nulla debbo al foro, nulla al Campo Marzio, nulla alla Curia [= potere politico], non aspiro per nulla ad una carica, non voglio salire per primo ad arringare la folla, non mi inchino ai palazzi del potere, non odoro le fogne, non adoro le porte dei tribunali, non ne consumo le panche, non metto sottosopra le aule giudiziarie, non schiamazzo a difender cause, non faccio il giudice, non il soldato, non il re: me ne sto lontano dalla gente. Ogni mia occupazione riguarda me stesso: di null'altro mi curo che di non curarmene: si può viver meglio in solitudine che a disposizione di ognuno. Ma tu biasimerai tale vita come inerte: “È evidente che si deve vivere per la patria, per lo Stato, per la società”. Eppure c'era una volta questa massima: “Nessuno nasce per un altro, essendo destinato a morire per sé”».  (torna su)


Nel discorso del pagano Cecilio compaiono tutti gli stereotipi sui cristiani: si tratta di persone empie, antropofaghe, incestuose, libidinose.

 IX. "Ac iam, ut fecundius nequiora proveniunt, serpentibus in dies perditis moribus per universum orbem sacraria ista taeterrima impiae coitionis adolescunt. Eruenda prorsus haec et execranda consensio. Occultis se notis et insignibus noscunt et amant mutuo paene antequam noverint: passim etiam inter eos velut quaedam libidinum religio miscetur, ac se promisce appellant fratres et sorores, ut etiam non insolens stuprum intercessione sacri nominis fiat incestum. Ita eorum vana et demens superstitio sceleribus gloriatur. Nec de ipsis, nisi subsisteret veritas, maxime nefaria et honore praefanda sagax fama loqueretur. Audio eos turpissimae pecudis caput asini consecratum inepta nescio qua persuasione venerari: digna et nata religio talibus moribus! Alii eos ferunt ipsius antistitis ac sacerdotis colere genitalia et quasi parentis sui adorare naturam: nescio an falsa, certe occultis ac nocturnis sacris adposita suspicio! Et qui hominem summo supplicio pro facinore punitum et crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur, congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur. Iam de initiandis tirunculis fabula tam detestanda quam nota est. Infans farre contectus, ut decipiat incautos, adponitur ei qui sacris inbuatur. Is infans a tirunculo farris superficie quasi ad innoxios ictus provocato caecis occultisque vulneribus occiditur. Huius, pro nefas! sitienter sanguinem lambunt, huius certatim membra dispertiunt, hac foederantur hostia, hac conscientia sceleris ad silentium mutuum pignerantur. Haec sacra sacrilegiis omnibus taetriora. Et de convivio notum est; passim omnes locuntur, id etiam Cirtensis nostri testatur oratio. Ad epulas sollemni die coeunt cum omnibus liberis, sororibus, matribus, sexus omnis homines et omnis aetatis. Illic post multas epulas, ubi convivium caluit et incestae libidinis ebriatis fervor exarsit, canis qui candelabro nexus est, iactu offulae ultra spatium lineae, qua vinctus est, ad impetum et saltum provocatur. Sic everso et extincto conscio lumine inpudentibus tenebris nexus infandae cupiditatis involvunt per incertum sortis, etsi non omnes opera, conscientia tamen pariter incesti, quoniam voto universorum adpetitur quicquid accidere potest in actu singulorum.

9. Tuttavia, come le piante velenose che sono anche le più feconde, la riunioni tenebrose di questa sacrilega coalizione, che aumenta con la perversione dei nostri costumi, si moltiplicano in tuttto il mondo. Bisogna annientare questa esecrabile setta. I loro sostenitori si riconoscono da segni segreti e si amano a vicenda senza quasi conoscersi: coprono le loro sconcezze con il nome della religione e si chiamano tra loro fratello e sorella, in modo che, mettendo in mezzo questo nome sacro, fanno dell’incesto un crimine ordinario. A tal punto un fanatismo vano e insensato li porta a esaltare i loro crimini! se ciò che si dice di loro non fosse vero, la fama renderebbe pubbliche su di loro delle cose di cui si può parlare solo con vergogna? Sento dire che adorano, non so per quale ridicola convinzione, la testa consacrata di un asino, il più ignobile tra gli animali. religione ben degna dei costumi cui deve la sua nascita! Altri pretendono che onorino, nella persona del prelato o del prete, i loro genitali e adorino la natura dei loro padri. Non so se ciò sia falso, ma le loro cerimonie segrete e notturne fanno ben nascere dei sospetti. Riportare il fatto che rappresentino sui loro altari l’immagine di un uomo giustamente punito con la pena capitale e che adorino il legno funesto di una croce, significa attribuire loro degli altari degni di loro e far loro adorare ciò che meritano. I racconti che si fanno delle loro iniziazione è tanto orribile quanto veritiero. Si presenta un ragazzo coperto di farina a colui che deve essere iniziato, alfine di nascondere la morte che sta per perpetrare, e  il novizio, ingannato da questa impostura, colpisce il ragazzo con molti colpi di coltello: il sangue cola, gli assistenti lo succhiano con avidità e poi si dividono le membra  palpitanti della vittima. È così che essi cementano la loro alleanza; è così che tramite la complicità del medesimo misfatto si impegnano vicendevolmente al silenzio. Così sono questi sacrifici più esecrabili di ogni sacrilegio. Sappiamo tutti dei loro festini; tutti ne parlano,  e lo attesta il discorso dell’oratore di Cirta [si tratta di Frontone]. In un giorno solenne tutti si recano al banchetto con i loro figli, le loro moglie e le loro sorelle, persone di ogni sesso e di ogni età; qui, dopo un lungo pranzo, quando il vino di cui si sono ubriacato comincia a eccitare in loro il fervore della loro libidine, attaccano un cane al candelabro e lo incitano a correre su un pezzo di carne che gettano ad una certa distanza. Dopo che le fiaccole si spengono, sbarazzatisi di una luce inopportuna, si uniscono a caso, in mezzo alle tenebre, con orribili abbracci e diventano tutti incestuosi, perlomeno in teoria se non proprio in pratica, poiché tutto ciò che può capitare nell’azione di ognuno entra nel desiderio di tutti.  (torna su)


A queste accuse, Minucio risponde puntualmente, ribaltandole sui pagani.

XXXI. Et de incesto convivio fabulam grandem adversum nos daemonum coitio mentita est, ut gloriam pudicitiae deformis infamiae aspersione macularet, ut ante exploratam veritatem homines a nobis terrore infandae opinionis averteret. Sic de isto et tuus Fronto non ut adfirmator testimonium fecit, sed convicium ut orator adspersit: haec enim potius de vestris gentibus nata sunt. Ius est apud Persas misceri cum matribus, Aegyptiis et Athenis cum sororibus legitima conubia, memoriae et tragoediae vestrae incestis gloriantur, quas vos libenter et legitis et auditis; sic et deos colitis incestos, cum matre, cum filia, cum sorore coniunctos. Merito igitur incestum penes vos saepe deprehenditur, semper admittitur. Etiam nescientes, miseri, potestis in inlicita proruere: dum Venerem promisce spargitis, dum passim liberos seritis, dum etiam domi natos alienae misericordiae frequenter exponitis, necesse est in vestros recurrere, in filios inerrare. Sic incesti fabulam nectitis, etiam cum conscientiam non habetis. At nos pudorem non facie, sed mente praestamus: unius matrimonii vinculo libenter inhaeremus, cupiditate procreandi aut unam scimus aut nullam. Convivia non tantum pudica colimus, sed et sobria: nec enim indulgemus epulis aut convivium mero ducimus, sed gravitate hilaritatem temperamus casto sermone; corpore castiore plerique inviolati corporis virginitate perpetua fruuntur potius quam gloriantur: tantum denique abest incesti cupido, ut nonnullis rubori sit etiam pudica coniunctio. Nec de ultima statim plebe consistimus, si honores vestros et purpuras recusamus, nec factiosi sumus, si omnes unum bonum sapimus eadem congregati quiete qua singuli, nec in angulis garruli, si audire nos publice aut erubescitis aut timetis. Et quod in dies nostri numerus augetur, non est crimen erroris, sed testimonium laudis; nam in pulcro genere vivendi et perseverat suus et adcrescit alienus. Sic nos denique non notaculo corporis, ut putatis, sed innocentiae ac modestiae signo facile dinoscimus: sic nos mutuo, quod doletis, amore diligimus, quoniam odisse non novimus: sic nos, quod invidetis, fratres vocamus, ut unius dei parentis homines, ut consortes fidei, ut spei coheredes. Vos enim nec invicem adgnoscitis et in mutua odia saevitis, nec fratres vos nisi sane ad parricidium recognoscitis.

Quanto al banchetto  incestuoso, sono i demoni che hanno forgiato questa favola grossolana, per macchiare, con l’orrore di una simile infamia, la gloria della nostra castità e distogliere gli uomini dall’abbracciare la nostra religione. Ciò che ha detto il vostro Frontone è un’ingiuria gratuita alla maniera degli oratori più che una testimonianza degna di fede: è tra voi, è in mezzo alle nazioni idolatre che si pratica l’incesto. I persiani non si fanno problemi ad abusare delle loro madri; gli egizi e gi ateniesi possono sposare le loro sorelle : i vostri storici e le vostre tragedie, che voi leggete e che intendente con tanto piacere, sono piene di incesti di cui gli eroi si vantano; e, dal momento che voi adorate dei incestuosi, dei che si sono uniti alle loro madri, alle loro figlie, alle loro sorelle, non ci si deve meravigliare se si commettono tanti incesti presso di voi. Come siete sventurati! potete rendervi colpevoli anche senza volerlo: conoscendo molte donne, diventando padri in paesi diversi, esponendo i vostri figli e abbandonandoli alla pubblica pietà, non è possibile che si formino tra voi e i vostri figli e tra i vostri figli stessi delle unioni illegittime? È senza la minima prova che ci accusate. Sappiate che noi ci preoccupiamo di essere casti più che di sembrarlo: noi ci impegniamo una volta sola nel vincolo del matrimonio e ci accontentiamo di una sola donna per avere dei figli; altrimenti non ne conosciamo nessuna. Non solo la castità, ma anche la sobrietà presiedono i nostri pasti : non commettiamo eccessi e una grave modestia tempera la nostra gioia. Casti nelle loro parole non meno che nelle loro azioni, ce ne sono molti tra di noi che conservano la loro verginità per tutta la vita senza trarne vanto; infine noi siamo così lontano da tutto ciò che rasenta l’incesto che molti perfino arrossiscono dei piaceri legittimi. Se noi rifiutiamo i vostri onori e la vostra porpora, non per questo ci si deve collare agli ultimi posti della società. Non siamo neppure faziosi, perché è l’amore del bene che ci riunisce, e, una volta riuniti, siamo tanto pacifici quanto lo siamo separati; e non potete criticare la segretezza delle nostre riunioni, se avete vergogna o se temete di sentirci in pubblico. Quando il nostro numero aumento ogni giorno, non dite che è l’effetto della naturale tendenza dell’uomo verso l’errore, ma attribuite alla forza della verità il privilegio della virtù di conservarsi suoi sostenitori e di fare ogni giorno delle conquiste. Non è, come voi pensate, per via di segni esteriori che noi ci conosciamo, ma per via di segni più certi, l’innocenza e la modestia.  Se noi siamo animati da un amore vicendevole, smettete di lamentarvene, noi non sappiamo odiare; se ci chiamiamo  fratelli, non siatene gelosi, non abbiamo forse lo stesso Dio per padre? non abbiamo forse tutti la stessa fede e non siamo tutti eredi della stessa speranza? Quanto a noi, non potete riconoscervi da alcun segno; siete continuamente divorati da odio reciproco, ed è solo nel parricidio che si manifesta la vostra fratellanza. (torna su)