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La nascita |
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Vengono
qui illustrate le varie teorie sulla genesi del romanzo, genere che godette di
una singolare fortuna lungo il corso del Medioevo: a Oriente veniva imitato
(romanzi bizantini), a Occidente letto e diffuso (un esempio forse è
rintracciabile nel Decameron di Boccaccio). Nel Rinascimento ebbero
grande fortuna le opere di Longo e di Eliodoro, dai quali presero spunto per
alcuni episodi Cervantes e Tasso, mentre Shakespeare trasse l'ispirazione per il
Pericle da un romanzo perduto.
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Fino
al 1876, anno di pubblicazione dell'opera di Rohde,
si pensava a un possibile influsso delle narrazioni fantastiche orientali
(India, Persia) sulla genesi del romanzo; Rohde, però, ne individuò il momento
genetico nella fusione della poesia erotica alessandrina con i racconti
d'avventura, avvenuta, a suo avviso, nelle scuole della II Sofistica (II secolo
d.C.).
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Le
prime critiche a questa teoria furono quelle mosse dallo storico tedesco Schwartz
(1896), il quale retrodatò i primi romanzi all'età ellenistica: tracciando una
cronologia del "preromanzo", arrivò a individuarne nell'Odissea
il più mirabile esempio. Il più duro colpo all'ipotesi di Rohde, comunque, fu
inferto dal ritrovamento di fine '800 di molti papiri risalenti a epoche
anteriori al II secolo, sui quali, anche se in stato frammentario, si trovavano
testi di romanzi greci.
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Lo
storico delle religioni Kerényi (1927) mise in
relazione le peripezie della coppia di amanti tipiche di ogni fabula con quelle
della coppia divine Iside-Osiride: il romanzo vedrebbe così sminuito l'aspetto
erotico a favore di quello religioso.
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Sebbene
geniale, questa interpretazione risultò non soddisfacente; quindi, sul filone
iniziato dal Rohde, il Lavagnini (1921) indicò nelle
leggende locali e popolari un valido antecedente del romanzo. Weinreich, poi
(1950), considerò il romanzo come una sorta di epos imbastardito, il cui
destinatario è una nuova cerchia di lettori, per così dire,
"borghesi".
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Ancora
più convinto della validità della tesi del Rohde fu il Cataudella
(1958), che collocò il momento genetico del romanzo nelle scuole di retorica (I
secolo a.C.), nelle quali declamationes e controversiae trovarono
grande spazio.
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Rivoluzionaria
fu la tesi del Barchiesi: non è interessante il
luogo o il genere connesso al romanzo, quanto piuttosto gli influssi formativi
che lo interessarono, come l'etica, la storiografia, la commedia nuova, l'elegia
alessandrina, le orazioni della II Sofistica.
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Erwin
Rohde (Amburgo 1845 - Heidelberg 1898) diede un fondamentale contributo alla
ricerca sulla nascita del romanzo greco, ed elaborò una teoria che, se per
alcuni aspetti è ormai inaccettabile, per altri resta insuperata. Nel 1876,
infatti, il filologo tedesco pubblicò un'opera (Der griechische Roman und
seine Vorläufer, Lipsia) destinata a dar vita ad intensi dibattiti sulla
questione della genesi del romanzo: partendo da un'attenta analisi della poesia
erotica alessandrina, egli rilevò una certa affinità tra l'elegia e il romanzo
stesso nell'impostazione, nell'atmosfera, nei topoi e nei formulari
ricorrenti, tanto da poter considerare alcune elegie come una sorta di
"romanzo in miniatura". In particolare, i brevi sunti di carattere
mitologico di Partenio di Nicea (I secolo a.C.), che fornirono il modello a
Cornelio Gallo per le sue elegie erotiche, possono essere considerati degli
schemi di romanzi. Accanto alla tematica amorosa, nei romanzi era presente anche
la componente avventurosa, propria dei racconti di viaggi in terre lontane e
fantastiche. Dalla fusione avvenuta tra queste due tematiche, secondo il Rohde,
avrebbe avuto origine il romanzo antico. Tale fusione ebbe vita nelle scuole di
declamazione della II Sofistica (che ha il suo apice nel II secolo d.C.), nelle
quali il gusto per la retorica si univa alla ricerca dell'elemento meraviglioso.
Nell'ambiente culturale neosofistico sarebbe, dunque, maturata una narrativa di
libera invenzione, fortemente improntata alla schematicità e letterarietà
delle scuole, in cui il gusto retorico coevo si avverte nella selezione dei
temi, nella stilizzazione delle forme, nella propensione alla digressione
erudita o descrittiva, nella convenzionalità del linguaggio. Secondo la sua
ipotesi, il romanzo dovette pertanto nascere intorno al II secolo d.C. e, in
base a un criterio stilistico-comparativo, ne fu ultimo esponente Caritone di
Afrodisia, collocato nel V-VI secolo. I ritrovamenti papiracei di fine '800, però,
hanno dimostrato come fossero da anticipare nel tempo le date di composizione di
diverse opere, tra le quali appunto quella di Caritone, che in realtà viene ad
occupare il primo posto tra i romanzi interamente pervenutici. Ulteriormente
anticipata risulta la stesura di alcuni romanzi, conservati in stato
frammentario e ritrovati in papiri: il Romanzo di Nino, ad esempio,
risale al I secolo a.C. e, pertanto, le prime stesure di romanzi vanno fatte
risalire almeno a questo periodo. Da un punto di vista cronologico, la teoria
proposta da Rohde risulta, pertanto, palesemente inaccettabile, ma fu il punto
di partenza per la letteratura critica successiva, e in particolare di Cataudella.
Per quanto riguarda, poi, i rapporti tra romanzo e novella, la tesi proposta da
Rohde esclude in assoluto ogni possibile contatto tra i due generi, reputando il
primo "idealistico", la seconda realistica: mentre nel romanzo il
tentativo di idealizzare è costante, i principali esempi di novella antica di
cui abbiamo notizia, e cioè le Fabulae milesiae (I secolo a.C.), di
carattere erotico e lascivo, tendono a ridicolizzare la realtà per mezzo di una
comicità licenziosa, che non disdegna beffe, equivoci e ambiguità. Secondo
un'altra linea critica, invece, questi due generi potrebbero avere avuto
un'origine comune e la novella andrebbe interpretata come un archetipo del
romanzo.
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Nel
testo Fünf Vorträge über den Griechischen Roman (Cinque saggi sul
romanzo greco), del 1896, E. Schwartz individua l'archetipo del romanzo
greco nell'Odissea e specialmente nei libri IX-XII ove, nei racconti di
Odisseo alla corte dei Feaci, domina l'elemento fantastico, fiabesco,
teratologico. Schwartz avverte nei viaggi di Odisseo la trasposizione fantastica
dei viaggi di esplorazione e colonizzazione degli Ioni, che dalla costa
microasiatica si spinsero fino all'estremo Occidente e all'Oceano. Ma Odisseo
non è l'unico "Robinson Crusoe" della civiltà greca: l'Epos
degli Arimaspi di Aristea di Proconneso, vissuto alla fine del VII secolo,
è un racconto in esametri epici di cui ci restano minimi frammenti: il
leggendario protagonista, invasato da Apollo, immaginava di giungere presso il
popolo nordico degli Issedoni; qui apprendeva strabilianti notizie su altri
fantastici popoli nordici, gli Arimaspi monocoli e gli Iperborei che abitano ai
confini del mondo. Lo studioso avverte in questo Epos gli echi dei viaggi degli
Ioni dalla costa microasiatica verso il Mar Nero e la Russia meridionale (Saga
degli Argonauti), verso il Mar Caspio e fino ai piedi del Pamir, lungo le vie
carovaniere asiatiche. Schwartz annovera tra gli antecedenti del romanzo anche
la Periegesi della Terra di Ecateo di Mileto, in cui coesistono
curiositas ionica e ingenuo razionalismo, i lÒgoi di Erodoto, il mito platonico
di Atlantide, la Ciropedia di Senofonte, che testimonia il crescente
interesse del mondo greco per la cultura persiana. La storia della Persia, dai
tempi del leggendario re Nino al IV secolo, era materia delle Notizie sulla
Persia di Ctesia di Cnido, medico presso la corte persiana; dell'opera, in
23 libri, restano pochi frammenti e un sommario nella Biblioteca di
Fozio. La storia romanzata nacque con le conquiste di Alessandro, dall'incontro
tra la civiltà greca e quella persiana e orientale, tra la storiografia Ionica
e le leggende asiatiche. Schwartz conduce un'accurata disamina dei caratteri
della cosiddetta "storiografia di Alessandro", di cui rimangono
frammenti, sommari e soprattutto citazioni e riferimenti negli storici
posteriori, specialmente in Arriano. I principali "storici di
Alessandro" furono Nearco, che impresse alla sua opera Navigazione
lungo la costa indiana, un carattere scientifico ed etno-geografico;
Tolemeo, autore più rigoroso e interessato agli aspetti strategici e politici
della conquista; Onesicrito di Astipalea, che attribuì alla figura di
Alessandro aspetti filosofici, soprattutto cinici; Aristobulo di Cassandrea, che
scrisse in età avanzata il resoconto romanzesco delle spedizioni cui aveva
personalmente partecipato; il retore Egesia di Magnesia, esponente della
storiografia retorizzante, Marsia di Pella, Egippo di Olinto. Callistene di
Olinto, nipote di Aristotele, celebrò in tono cortigianesco ed encomiastico le
gesta di Alessandro, imprimendo alla narrazione spiccati caratteri romanzeschi.
Nel III secolo gli elementi della leggenda di Alessandro e della letteratura
esotica e teratologica si fusero nel cosiddetto Romanzo di Alessandro,
falsamente attribuito a Callistene, compiuta sintesi di elementi storici,
fantastici, meravigliosi, di ascendenze culturali di Oriente (Persia, Arabia,
Egitto, India) e Occidente. Il fascino dei paesi orientali ispirò una fiorente
letteratura pseudostorica ricca sia di elementi favolosi sia di intenzioni
razionalistiche: lo Scritto sacro di Evemero di Messene, racconto di
viaggi nell'Oceano Indiano fino all'isola favolosa di Panchaia, le opere Gli
Egizi e Gli Iperborei di Ecateo di Abdera. Schwartz dedica
l'ultima sezione del suo lavoro all'analisi delle connessioni e degli elementi
di continuità tra la letteratura geoetnografica, teratologica, esotica e
fantastica, arcaica ed ellenistica, e il romanzo greco fiorito specialmente nel
II secolo d.C.; accanto all'influsso della retorica siriana microasiatica della
II Sofistica, rintraccia come carattere dominante del romanzo di età
greco/romana il sincretismo religioso, magico, filosofico. In Egitto, e
specialmente ad Alessandria, si verificò l'incontro e la fusione di elementi
culturali occidentali ed orientali: i culti di Iside, Serapide, Mitra,
l'astrologia caldea, la magia egizia, la ricerca numerologica ed il misticismo
di matrice pitagorica. Appartengono a questa medesima matrice culturale e si
pongono in una linea di continuità con la letteratura esotica e fantastica di
età arcaica ed ellenistica il romanzo di viaggi del siriano Iambulo, lo scritto
di Antonio Diogene, Le meraviglie al di là di Tule, cui probabilmente
si ispirò Luciano di Samosata per la sua Storia vera, e le Etiopiche
del siriano Eliodoro.
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Lo
storico delle religioni Karoly Kerényi affrontò il problema delle
origini del romanzo (Die griechisch-orientalische Romanliteratur in
religionsgeschichtlicher Beleuchtung), focalizzando il suo studio sullo
schema fisso comune ai vari testi letterari collocabili in questo genere: la
separazione, le peripezie e il ricongiungimento finale dei due amanti. Secondo
lo studioso ungherese, questa costante struttura narrativa ha come modello
genetico la vicenda rituale della coppia divina costituita da Iside e Osiride.
Entrambe le divinità appartengono alla religiosità egizia, tradizionalmente
legata all'istituzione monarchica del paese. Danno testimonianza di ciò fonti
assai antiche, risalenti alla V e VI dinastia (2280-2190 a.C.), in cui Osiride
è modello per il faraone che muore, e il figlio di lui, Horus, ne impersonifica
il successore al trono. Un'ulteriore conferma di questo intreccio tra piano
divino e umano è data dall'usanza dei faraoni di sposare le proprie sorelle,
così come Iside è sorella e sposa di Osiride. La vicenda di cui la coppia
divina è protagonista è la seguente: Osiride, per aver civilizzato la
terra e in particolare l'Egitto, avrebbe dovuto diventarne il sovrano ma cadde
vittima di un inganno, tesogli dal perfido fratello Seth che pure aspirava al
regno. Questi, infatti, lo rinchiuse in un cofano che gettò nel Nilo; Iside,
trovato il cadavere del marito, lo nascose, ma Seth, dopo averlo scoperto, lo
fece a pezzi e li disperse in tutto il paese. Iside ricompose allora il corpo
dello sposo, riuscì a ridargli la vita e a generare un figlio, Horus, destinato
a succedere al padre, che sarebbe divenuto invece il sovrano del regno dei
morti. Il culto di Iside e Osiride si modificò nel tempo e assunse una
posizione dominante in tutto l'Egitto. Siccome ogni città aveva una propria
divinità locale, capitò che la triade composta da Iside, Osiride ed Horus, si
differenziasse, venendo caratterizzata, di volta in volta, dagli attributi delle
divinità del luogo. A partire dall'età ellenistica, nel mondo greco-romano il
culto isiaco si diffuse al punto da superare quelli legati al pantheon
tradizionale. Esso era presente in Campania, specialmente a Pompei, fin dal I
sec. a.C.; con Silla Roma ebbe un tempio di Iside, ma, durante la lotta di
Ottaviano contro Antonio e Cleopatra, tutti i culti orientali furono screditati
e rimasero interdetti anche sotto il regno di Augusto e Tiberio. Sotto Caligola,
nel 38 d.C., fu edificato a Roma un tempio in onore di Iside, in quanto il suo
culto era una moda bene accetta presso la corte imperiale. I Flavi accordarono
al sacerdozio di Iside privilegi straordinari e ne favorirono la diffusione.
D'altra parte, quando il cristianesimo arrivò in Egitto, fu accolto più
rapidamente che altrove per le sue affinità al culto di Iside, Osiride ed Horus
tra cui: l'idea trinitaria, il tema della resurrezione di Osiride,
l'accostamento tra Iside e la Vergine Maria. Una simile propagazione del culto
ebbe, naturalmente, riscontro nella letteratura greco-latina. Il romanzo di
Eliodoro Storie etiopiche di Teagene e Cariclea, databile tra la metà
del III sec. d.C. e la metà del IV sec. d.C., è particolarmente fitto di
riferimenti al culto isiaco e, in generale, alla religiosità orientale. I
genitori di Cariclea, la fanciulla protagonista, insieme a Teagene, della
vicenda, sono entrambi sacerdoti di Elios e Selene, dato significativo,
dal momento che Elios impersonifica Osiride, mentre Selene rappresenta Iside.
Compare un altro personaggio nel ruolo di sacerdote di Iside e devoto di Elios
(cioè di Osiride): è Calasiri, che proteggerà e guiderà i due giovani nelle
loro peripezie. I riferimenti al culto isiaco si intensificano negli ultimi
libri del romanzo: nell'VIII si ha un excursus sul fiume Nilo, corredato
da indicazioni sul culto di Iside e Osiride. Nel IX libro si verifica la
destinazione sacrificale dei due giovani, che stanno per essere immolati a Iside
per rendere sacra la vittoria degli Etiopi sugli Egizi. Teagene e Cariclea
vengono posti su una graticola ma, dal momento che non bruciano, vengono
ritenuti puri e risparmiati. La sezione finale del X libro è occupata dalla
descrizione dei riti e dei sacrifici compiuti in onore del Sole e della Luna
(ovvero, Osiride e Iside). Altra opera significativa è il De Iside di
Plutarco (47-127 d.C.). Ugo Bianchi nel suo saggio Iside dea misterica.
Quando? ha esaminato un passo dello scritto plutarcheo, tratto dal capitolo
27, in cui si dice:
Iside
istituisce la celebrazione dei misteri come immagine, simbolo e imitazione
delle sofferenze di allora e insieme come insegnamento di pietà e
consolazione per gli uomini e le donne afflitti da circostanze similari.
Lo
studioso evidenzia il carattere misterico del culto isiaco, diffuso in ambito
ellenistico. Esso si differenzia dall'osirismo classico perché è
"un'iniziazione individuale tesa al conferimento di privilegi in un aldilà
isiaco"; inoltre essa ha luogo sul vivo e non sul defunto, come era tipico
nel rituale faraonico egizio. Il fatto che Iside si riferisca agli uomini e alle
donne come realtà distinte ha un duplice motivo: raggiungere ciascuno nella sua
specifica individualità e configurare, secondo quello che è un topos
isiaco, "gli uomini e le donne come costituenti l'articolazione essenziale
della vita umana e il principio stesso di questa". La vocazione della dea
è personale e universale, proprio come lo è il destino di morte nella
condizione umana. La riflessione su questo tema, osserva Bianchi, è "un
tema misterico per eccellenza" e per questo si è pensato ad un'influenza
eleusina su Iside per quanto concerne le concezioni soteriologiche e le pratiche
rituali. Tuttavia va fatta un'importante distinzione tra il culto isiaco e
quello eleusino: mentre nel primo la vocazione divina prevede una vita pura da
condurre di conseguenza, nel secondo la purezza è un presupposto
dell'iniziazione stessa. Anche nel romanzo latino di Apuleio, Le Metamorfosi,
si rintracciano forti connessioni con la religiosità isiaca. Il finale
dell'opera (libro XI) consiste nell'iniziazione sacerdotale del protagonista,
Lucio, al culto di Iside. Il lettore assiste alla conversione di Lucio che da
asino ritorna uomo e, per di più, si libera dai suoi vizi per essere puro e
servire degnamente la dea. Si ricordi che nel II sec. d.C., quando Apuleio
scrisse Le Metamorfosi, la diffusione del culto isiaco era giunta al
suo apogeo. Durante questo periodo la civiltà greco-romana visse un profondo
disagio dovuto alla crisi dei valori civili e ad un progressivo impoverimento
della vita economica; si crearono pertanto le condizioni ottimali per il
propagarsi di sette e religioni mistiche. L'inquietudine spirituale trovò
appagamento in religioni a carattere personale e soteriologico, a diffusione
specialmente popolare. Scrive James Teackle Dennis ne La leggenda di Iside e
Osiride nei testi originali: "Ciò che impressionerà in queste
liturgie, è il sentimento profondo e sincero che le pervade: il lutto per il
perduto, la speranza di rivederlo, il grido accorato di aiuto, la fiducia nel
destino, divino e onnipotente, che porrà alla prova un termine felice, e il
trionfo di un desiderio realizzato e di una speranza esaudita".
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Nel
1921 lo studioso italiano Bruno Lavagnini pubblicò Le origini del
romanzo, opera dedicata allo spinoso problema della genesi del genere del
romanzo greco. L’incertezza
e l’indeterminatezza che avvolgono un genere al momento della sua nascita
non ci permettono di dare una data precisa alla sua fondazione. Anche il fatto
che il romanzo nacque in un ambiente popolare, come filone estraneo alla
letteratura ufficiale, e i suoi legami iniziali molto stretti con la
storiografia ellenistica, rendono difficile fissarne una "data di
nascita". Lavagnini sostiene che esso si sia sicuramente formato nel
periodo ellenistico III a. C., ma che già nel secolo precedente IV a.C. si
potevano rintracciare forme embrionali che presentavano i temi e gli intrecci
tipici dei romanzi posteriori. Dopo aver accertato la collocazione delle
origini del genere nell’Età ellenistica l’autore, afferma, superando
l’ipotesi di Rohde (1876), che esso prese vita dalle leggende popolari
rielaborate nel quadro della storiografia, uno dei pochi generi che durante
l’Ellenismo, quando la letteratura aveva perso il contatto con il popolo ed
era divenuta letteratura di corte, rispondeva alle esigenze delle classi meno
colte. Di queste saghe, a carattere per lo più amoroso, connesse coi culti e
con le tradizioni locali, oltre alle elaborazioni dotte dei grandi poeti
ufficiali, dovettero, secondo Lavagnini, esisterne altre meno pretenziose, in
prosa, fatte soprattutto per uso del popolo, che erano influenzate, appunto,
dalla storiografia. Essa, infatti, raccoglieva le leggende e i miti come
episodi memorabili nel corpo delle tradizioni di un popolo. Per divenire
romanzo bastava che il mito fosse privato di ogni valore religioso e parlasse
non più alla ragione del poeta ma alla sua fantasia. Era inoltre conseguenza
necessaria, conformemente agli interessi della civiltà ellenistica,
concentrata sul microcosmo familiare, che nel mito tradizionale eroico, che
ora veniva rimosso dall’idealizzazione religiosa, accentuasse sempre più
l’elemento erotico. Questo, acquistando per lo scrittore un interesse
predominante su tutto il resto, invece di restare solo una piacevole
digressione all’interno del racconto, diventava materia di composizione
artistica. Con questo spostamento di interesse dall’eroico all’erotico,
dal generale al particolare dell’individuo era dunque per Lavagnini nato il
romanzo.
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Quintino
Cataudella pubblicò nel 1957 La novella greca e l’anno seguente
una Prefazione al romanzo greco e latino, opere di fondamentale
importanza per comprendere il pensiero dell'autore e apprezzare l'impegno
della critica italiana nella questione della genesi del romanzo greco.
Cataudella,
partendo dal lavoro svolto dal Rohde (1876), che vedeva nella scuole
sofistiche del II secolo dopo Cristo il luogo genetico del romanzo, opera,
alla luce dei ritrovamenti papiracei e dell'evoluzione della critica al
riguardo, uno studio comparativo tra le opere novellistiche dell'età
imperiale e le scuole non della Seconda Sofistica, ma di declamazione del I
secolo avanti e dopo Cristo. Nelle declamazioni erano proposte e discusse
sottili questioni di diritto e prospettate situazioni eccezionali, che
tuttavia rispecchiavano, più o meno fedelmente, la vita sociale del tempo.
Molte di tali situazioni avevano il carattere di trame di novelle ed è molto
verosimile che ad esse si ispirassero e ne traessero spunto; è anche
probabile che alcune novelle siano state, più o meno direttamente, ispirate
dalle declamazioni. Cataudella si preoccupa allora di rintracciare nel romanzo
quegli spunti e quei motivi presenti nelle scuole di declamazione, che
costruirono il romanzo stesso e lo costituirono come genere letterario a sé,
indipendente dalla pre-novella, che lo aveva alimentato e contenuto
nella sua fase più antica.
La
novella in origine non differisce dal racconto storico: quando Omero narra le
avventure di Odisseo e Penelope, due sposi separati da una lunga serie di
peripezie che alla fine si ricongiungono felicemente, secondo lo schema che
diverrà tipico del romanzo greco, intende fare, a modo suo, storia; anche
Erodoto intende far storia, pure quando narra la voluttuosa e sanguinosa
avventura in seguito alla quale Gige pervenne al potere; e storia fa
Senofonte, anche quando compone il suo romanzo filosofico sulla figura di
Ciro, e quando introduce l'eroica avventura, di amore fedele e di morte, di
Pantea e Abradata.
Con
questo tipo di racconti si è già alle soglie del romanzo; per giungere ad
esso - afferma Cataudella - basterà che gli avvenimenti, i luoghi e i
personaggi perdano il rilievo dei loro contorni e la concretezza della loro
individualità storica, per confondersi nel vago della maniera e della
genericità, dell'anacronismo e delle deformazione della verità storica:
questa è la grande novità del romanzo, il fatto che i personaggi e le trame
siano di pura invenzione, anche se legati in qualche modo alla realtà di
fatti avvenuti.
Per
Cataudella questa innovazione nel campo della narrativa fu dovuta all'azione
delle scuole di declamazione dei secoli I avanti e dopo Cristo. Per il Rohde,
infatti, il romanzo sarebbe nato dalla fusione di racconto d'amore e
narrazione di viaggi; ma il romanzo, contrariamente alle ipotesi del critico
tedesco, è di qualche secolo anteriore alla Seconda Sofistica e non può
perciò dipendere da essa. L'insegnamento nelle scuole di declamazione,
invece, lavorava soprattutto sugli exempla ficta, oltre che su esempi
fittizi modellati su vicende storiche: a Cataudella interessa allora vedere se
nell'evoluzione del concetto di historia non abbia influito decisamente
l'esempio e la pratica delle scuole di eloquenza.
L'uso
delle declamazioni, nel quale si trovano le premesse che favorirono il
passaggio dalla storia alla mithistoria, e con ciò l'origine della
novella d'invenzione e del romanzo, non nasce con la Seconda Sofistica,
sebbene in essa abbia il suo maggiore sviluppo, ma è anteriore ad essa di
qualche secolo. In Roma l'uso delle controversiae nelle scuole di
retorica risale per lo meno ai tempi di Cicerone, se non prima, ma in Grecia
quest'uso è notevolmente più antico: per Filostrato l'iniziatore è Eschine,
il fondatore della scuola rodia (389-314 avanti Cristo); per Quintiliano è
Demetrio Falereo (345-283). Ma l'uso delle declamazioni nelle scuole di
eloquenza è certamente più antico: le tetralogie di Antifonte, anteriori di
almeno un secolo a Demetrio Falereo, ne sono una dimostrazione inconfutabile.
Benché
la documentazione sull'esistenza dell'uso delle declamazioni anteriormente
alla Seconda Sofistica non sia molto ricca, essa è comunque sufficiente per
Cataudella a rendere possibile, anche dal lato cronologico, l'interpretazione
secondo la quale il romanzo greco sia una forma decaduta di storia, una sua
trasformazione nel senso della finzione, sotto l'influsso delle scuole di
declamazione.
Ma
la critica di Cataudella, che già offre notevolissimi spunti di indagine, non
si arresta al Rohde: essa va ad esaminare anche la teoria di un altro illustre
studioso italiano, Bruno Lavagnini (1921). Costui suppone che il romanzo sia
una elaborazione popolare di leggende indigene, inquadrate nel panorama più
ampio della storiografia, e che le fonti siano da rintracciare in cronache
locali, cui fu data una redazione scritta. Ma per Cataudella Lavagnini si è
limitato all'individuazione dei materiali genetici del romanzo, non alla loro
giustificata concatenazione: il problema delle origini del romanzo non è solo
di identificare la sostanza narrativa e di indicarne la provenienza, ma di
vedere come questa materia diventi romanzo.
Questa
esigenza è ricollegata da Cataudella al lavoro di Kerényi (1927), che
interpretò le vicende della coppia divina egizia Iside - Osiride come il
carattere fondante del romanzo greco: per Kerényi le peripezie delle due
divinità sarebbero modelli del travagliato svolgimento della storia d'amore
dei protagonisti del romanzo. Ma la complessità di tale teoria genetica
risiede nella quasi impossibilità di reperire prove che giustifichino tale
rapporto di derivazione; inoltre il romanzo non avrebbe avuto bisogno di
ricercare al di fuori della letteratura i motivi e i modelli delle sue fasi
originarie, quando davanti a sé si paravano schemi formali già affermati.
Non trascurabile è poi la possibilità che l'interpretazione religiosa
dell'origine del romanzo porti in superficie un elemento periferico e svii
l'attenzione dal rinvenimento di basi più solide sulle quali fondare la
nascita del romanzo. Cataudella parla allora di leggenda sì sacra, ma ormai
svuotata del suo significato mistico e religioso, secolarizzata e indipendente
dalla vicenda di Iside e Osiride: è la fiaba di Amore e Psiche, la storia di
due giovani amanti separati per un destino ostile attraverso insidie, trame e
vendette, che poi si ricongiungono in seguito ad una serie di prove alle quali
uno dei due amanti è stato sottoposto per volere di una divinità offesa o
trascurata. Negli amanti si possono allora vedere le figure delle due divinità
egizie, nelle prove le peripezie di Iside, nel dio offeso Set. Così facendo,
però, ancora una volta si fornisce solo una fonte, o forse la fonte,
sulla quale il romanzo si impiantò e crebbe. Cataudella, alle obiezioni di
chi affermi la necessità dell'interpretazione di Kerényi in conformità alla
schematicità dell'impianto narrativo del romanzo, oppone la tesi secondo la
quale i topoi romanzeschi si sarebbero codificati a causa del favore
che il pubblico mostrava nei confronti di questi stessi: inutile sarebbe
allora accanirsi su di una teoria difficilmente dimostrabile.
Da
ultimo, Cataudella esamina la teoria di Weinreich (1950), il quale vide
nell'epica il momento genetico del romanzo greco; ma, come osserva il critico
italiano, l'epica è indissolubilmente legata al mito, e questo non può certo
aver permesso all'autore dei romanzi la possibilità di staccarsi
definitivamente da un impianto codificato di convenzioni narratologiche, per
portarsi sul nuovo e diverso scenario del romanzo. A Cataudella interessa come
si passò dal mito all'invenzione, trapasso che il Weinreich non approfondì:
questo fu dovuto, forse, alla stessa ragione per la quale anche la tragedia
abbandonò l'originaria materia dionisiaca, ovvero a causa del rapido
esaurimento degli elementi mitici legati a quel culto.
Ma
anche questa ipotesi non soddisfa Cataudella. Egli, in definitiva, propone
come più probabile la teoria secondo la quale il romanzo nacque dalle scuole
di declamazione del I secolo avanti e dopo Cristo, dall'esigenza profonda
dell'uomo ellenistico di astrarsi dal presente e di rivolgere la propria
attenzione ad un mondo altro, fittizio, di pura invenzione, che lo sollevasse
dall'horror vacui che la decentralizzazione degli imperi gli rendeva
insostenibile.
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INFLUSSI
FORMATIVI DELLA COMMEDIA NUOVA NEL ROMANZO GRECO
I principali sostenitori dell' influsso formativo della commedia sul
romanzo greco sono A. Barchiesi e M. Fusillo. Entrambi gli
studiosi mettono in risalto la parzialità delle singole spiegazioni di
carattere genetico sostenendo la tesi secondo la quale il romanzo nacque
grazie agli influssi di altri generi letterari precedenti. Tra questi sia
Fusillo sia Barchiesi individuano la commedia nuova come uno dei generi che ha
dato un apporto determinante. Se, infatti, Euripide fu il primo a rivestire di
quotidianità il mito nelle sue tragedie, fu certamente la commedia nuova ad
assumere come oggetto privilegiato la dimensione privata: i personaggi di
Menandro sono persone ordinarie, che vivono in un mondo ordinario. Ovviamente,
quindi, nella commedia si assiste a quel fenomeno di valorizzazione della vita
privata, e in particolare dell'eros, che domina indiscusso il romanzo greco.
Vi è un elemento che accomuna la commedia nuova e le tragedie euripidee
dell'ultima fase (Elena, Ione, Oreste, Ifigenia in Tauride), cioè la Tyche
(Fortuna, Sorte, Caso) che sarà la vera divinità dell'età ellenistica.
"Sono la dea che arbitra e amministra tutte queste vicende, la
Fortuna" dice la dea nel prologo dell'Aspis di Menandro
(vv.147-148) svelando così la visione menandrea del mondo, dominato dal caso
che vanifica le azioni umane e provoca coincidenze imprevedibili, avvenimenti
inaspettati. La Fortuna fa sì che le azioni dell'uomo non incidano sul corso
degli eventi (ad es. nell'Aspis il piano di Davo per ingannare Smicrine
e concludere il matrimonio perde senso quando il padrone, creduto morto,
ritorna) o che le stesse azioni umane allontanino dall'obiettivo che si vuole
raggiungere . Ed è proprio su questo inconciliabilità tra il disegno della
sorte e i progetti dell'uomo che si situa il ruolo della Tyche nel romanzo
greco. Caritone (2.8.3) scrive: "Fu sconfitta, però, da uno stratagemma
della Fortuna, l'unica contro la quale non ha alcuna forza la razionalità
umana; è una dea che ama le contese, e tutto ci si può aspettare da lei.
Allora, quindi, portò al successo un piano inaspettato, o piuttosto
incredibile". Eliodoro fa dire a Cariclea (1.26.4): "Spesso il caso
offre la soluzione che gli uomini non avrebbero trovato in infinite
considerazioni". Ancora Caritone scrive: "Ogni inflessione e ogni
dialogo d'amore fu rovesciato dalla Fortuna, che trovò pretesto per azioni più
eccezionali" (6.8.1). Achille Tazio all'inizio della sua vicenda (1.3.3)
scrive: "La Fortuna dava inizio al dramma" e, successivamente, fa
dire a Clitofonte: "Ma contro di me si pone di nuovo la solita fortuna e
dispone una nuova peripezia ai miei danni" (6.3.1). L'uomo non può
dominare i capricci della sorte, la quale rovescia ogni progetto e previsione.
Alla fine la beffa del destino si tramuta sempre in trionfo, esattamente come
accade anche nella commedia. Ma se nella visione menandrea la Tyche è arbitra
indiscussa di tutti gli eventi, felici o meno, nel romanzo greco si
specializza come elemento negativo, ostacolo al ricongiungimento della coppia
di amanti che vengono sottoposti ad una serie continua di avventure e insidie
da parte dei loro nemici. Tutte le volte che il caso porta a una soluzione non
si parla di Tyche ma di una generica divinità o ad un demone come in
Eliodoro, 1.26.4 ("il demone che dall'inizio ha avuto in sorte di
proteggere il nostro amore") o in Achille Tazio, che parla di un
"demone benevolo" (3.22.3) che la Fortuna non ostacola. Neanche il
lieto fine viene provocato dalla Tyche; essa è, quindi, quella forza
distruttrice che rende il romanzo, con continui equivoci e separazioni,
un'avventura infinita. Un'altra personificazione comune a Menandro e al
romanzo è l'Ignoranza, che pronuncia il prologo dalla Pericheiromene.
L'Ignoranza crea sia nella commedia sia nel romanzo quell'effetto che si
definisce come ironia drammatica che nasce dalla maggiore informazione del
lettore o dello spettatore rispetto ai protagonisti. Così come nella commedia
così anche nel romanzo l'equivoco svolge una funzione determinante;
l'intreccio di Caritone scaturisce da un equivoco (un rivale deluso fa credere
a Cherea che Calliroe lo tradisca), e si sviluppa con continui quiproquo,
scambi di persona, morti apparenti, insomma altri equivoci. Anche il romanzo
di Achille Tazio è ricco di situazioni da commedia: alla base dell'intreccio
abbiamo uno scambio di persona e il conflitto padre-figlio che tanta fortuna
ebbe nella commedia latina. Persino Eliodoro, colui che si allontana
maggiormente dalla commedia e dallo schematismo tipico del romanzo greco,
sfrutta lo scambio di persona fra Tisbe e Cariclea in ben tre occasioni
(2.1-5; 5.8; 5.2.7).
Bisogna
però specificare che nel romanzo viene accentuato rispetto a Menandro il
potere del caso, a scapito dell'iniziativa umana. Nel commediografo lo spazio
riservato alle possibilità di intervento e di azione umana è ridotto ma non
azzerato: i piani architettati dal protagonista non ottengono successo, ma
alla fine risulta vincente chi si è adoperato con tutte le sue forze per
giungere ad una soluzione eticamente positiva. La ragione del minore spazio
concesso all'iniziativa dell'individuo nel romanzo va individuato nello iato
temporale che separa commedia e romanzo: nella commedia nuova si riflette il
nuovo assetto della società ellenistica, che comporta un allontanamento delle
tematiche politiche a vantaggio della sfera privata, ma il romanzo si situa in
una fase successiva, nella quale l'assetto politico era già stato
stabilizzato dall'impero romano. Ne deriva il senso angoscioso di un universo
dipinto come inganno continuo dell'apparenza e della Fortuna verso cui l'uomo
ha scarsissime possibilità d'intervento. Tuttavia l'iniziativa personale non
è del tutto assente nel romanzo; spesso assume le tinte dell'intrigo da
commedia, in particolare il motivo topico del piano architettato dal servo (si
ricordi il ruolo di Plantagone nel favorire l'amore del padrone Dioniso per
Calliroe in Caritone 2.6-11 o l'intrigo di Satiro perché Clitofonte possa
raggiungere e rapire Leucippe in Tazio 2.4-31 o ancora Cibele che tenta di
convincere Teagene ad unirsi con Arsace in Eliodoro 7.9-8.7).
Inoltre
ci sono altre iniziative tipiche che i protagonisti oppongono alle
persecuzioni della sorte che sono il travestimento e la menzogna, derivate da
Omero (Odissea), rintracciabili soprattutto in Eliodoro. L'individuo si
può difendere solo con l'inganno, la finzione o altri espedienti i quali non
possono cambiare il corso degli eventi ma possono ritardarli, dando il tempo
per far prevalere il demone benefico. Si può notare come si possa ricondurre
a Menandro la generale tendenza del romanzo ad abbassare tutta la letteratura
precedente a livello "borghese", come succede nei monologhi che si
potrebbero definire paratragici del commediografo greco. Dal momento che, però,
la maggior parte della produzione di Menandro ci è giunta in stato
frammentario non è possibile fare troppe generalizzazioni per cui ci si
limiterà a notare come le commedie menandree e i romanzi greci rientrino
nello stesso modello narrativo: una coppia attraversa una separazione e varie
peripezie fino al ricongiungimento finale. Si possono constatare alcune
differenze che riguardano fondamentalmente la coppia che si può presentare
fin dall'inizio come una coppia di coniugi (Menandro, Caritone), a cui può
aggiungersi anche il matrimonio di un'altra coppia (Caritone, Senofonte Efesio,
Achille Tazio e Menanadro). Abbiamo, ovviamente anche la fabula più lineare,
la coppia che si fidanza nella fase iniziale e si sposa in quella finale,
forma rappresentata da Eliodoro e Longo Sofista. Sembra quasi che i romanzi
greci scaturiscano dagli intrecci menandrei, dilatati, modificati, dando molto
più spazio all'avventura che riprende anche materiali storiografici,
paradossografici ed oratori. Certamente le commedie menandree sono più
interiorizzate, grazie ad un maggiore approfondimento della psicologia dei
personaggi, e rifuggono dalla tipizzazione, mentre i romanzi greci presentano
una maggiore convenzionalità. Quello che importa, però, è che sia nella
commedia che nel romanzo l'intreccio venga ridotto allo spazio privato,
procedimento ancora più accentuato nei romanzi del secondo periodo in cui
assumono scarso spessore anche tutti i legami familiari eccetto quello
amoroso. Varrà la pena di concludere il confronto tra Menandro e il romanzo
osservando la fondamentale analogia della ricomposizione nei finali, sempre
positivi. Ciò ha, ovviamente, le sue radici nell'Ellenismo in cui
l'insicurezza e lo smarrimento erano caratteristiche peculiari e quindi era
molto sentita la necessità di trovare consolazione e tranquillità. Il fatto
che l'eroe sia quasi "passivo" davanti allo svolgersi degli eventi
sottolinea il fatto che la vita sia vista come qualcosa di incontrollabile, in
cui le iniziative dell'individuo sono inutili e in cui l'individuo stesso si
smarrisce. Ma non è certo questo l'unico aspetto che permette di ritrovare
nel romanzo le caratteristiche del suo tempo: capita spesso che prima del
lieto fine si viva "fuori posto", concetto evidenziato dagli scambi
di persona,false morti, bambini esposti che hanno perso ogni contatto con la
famiglia d'origine... Da tutto questo si deduce una perdita d'identità e di
ruolo dell'individuo all'interno della società e della società stessa, ormai
lanciata in un nuovo orizzonte cosmopolita che porta insicurezze e paure
nuove. Il lieto fine, dunque, permette di "esorcizzare" almeno in
parte l'inquietudine tipica di un'età di grandi cambiamenti.
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