Il fu Mattia Pascal: anatomia di un romanzo
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1.
L’ottica straniata dell’io narratore L’importanza
del romanzo non sta nella fabula, ma
nella novità dell’intreccio. E’ un romanzo scritto in prima persona, ma
questa non è una novità; la vera novità consiste nello stravolgimento del Entwicklungsroman,
collegato con l’esigenza di evidenziare la crisi dei valori borghesi: il
racconto infatti comincia en arrière,
cioè a vicenda conclusa, per effetto della quale il personaggio che dice «io»
si considera «già fuori dalla vita» (cioè estraniato), mentre il lettore non
ha da attendersi nessuna catarsi (come invece capitava nel romanzo
naturalistico-antropocentrico). Il relativismo critico dell’ottica
pirandelliana nega in partenza ogni consolante certezza e propone un personaggio
squilibrato (lo sarà anche Vitangelo Mostarda di Uno, nessuno, centomila)
che ha perso ogni senso finalistico della vita. Il continuo passaggio del
narratore dal presente al passato indica la presenza di una logica non
astrattamente raziocinante, ma angosciosamente problematica. Fatti, personaggi,
pensieri, riflessioni vengono destrutturati, cioè sottratti al tempo e allo
spazio della fabula e ancorati al
limbo del discorso del narratore (si vede come si è distanti da Manzoni e da
Verga!). Mattia Pascal è sostanzialmente un anarchico; ma il suo progetto di
libertà assoluta è assurdo perché l’uomo non può non essere radicato,
anche solo nel suo passato, il quale è un dato a
priori. 2.
Il primo tempo del romanzo: Mattia o dell’irresponsabilità Il
primo tempo della fabula è
rappresentato dai primi sette capitoli: Mattia nella sua giovinezza in un
paesino della Liguria. Mattia è un inetto («Ero inetto a tutto», cap. v)
e trova impiego in una biblioteca (fa il guardiano di libri più che il
bibliotecario, cap. v). Poi la disponibilità di 500 lire lo spinge a fuggire di
casa per cercare la fortuna che finisce per trovare sul tavolo verde di
Montecarlo. Il cap. vii è il
fulcro del romanzo, il momento della svolta: non a caso si intitola
Cambio treno, cioè cambio vita. 3.
Il secondo tempo del romanzo: lo scacco di Adriano Meis Alla
parabola dell’eroe degradato (i-vii)
dovrebbe corrispondere la risalita nei capp. viii-xvi
(come capita ne I promessi sposi). Ciò
non avviene, anzi non può avvenire, per due motivi: per la struttura estraniata
dell’intreccio (i-ii), per
effetto della quale Mattia ritorna nel suo locus damnationis, e per l’inadeguatezza interiore a proporsi come
uomo nuovo (è un inetto appunto), la sua immaturità che gli fa vivere due i
anni di libertà a Roma come un manichino. E’ per questo che non si tratta di
un Bildungsroman. Qui Pirandello è
geniale: non ci si libera con un gesto gratuito del proprio passato su cui si
fonda il presente e il futuro e non esiste una libertà intesa come astratto
disimpegno da tutto e da tutti, non tanto perché ci sono dei condizionamenti
sociali (già sarebbe molto), ma soprattutto perché il riscatto personale
presuppone un rapporto qualitativamente diverso con gli altri. L’immaturità
di Adriano Meis sta tutta qui: le nuove relazioni implicano necessariamente che
tra il prossimo e la sua coscienza si interponga Un po’ di nebbia (cap. ix),
che a poco a poco finirà per pesargli addosso come una cappa opprimente. Il
cap. viii pone tutte le premesse
per una drammatica verifica dell’assurdità del progetto
(«Or che cos’ero io se non un uomo inventato? Un’invenzione
ambulante che voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sé, pur se
calata nella realtà»): Mattia è straniero alla vita: «La mia vera, diciamo
così, “estraneità” era ben altra e la conoscevo io solo: non ero più
niente io» (cap. viii). Il seguito
del racconto amplia quest’area delle contraddizioni sofferte da un uomo
inventato («Or che cos’ero io, se non un uomo inventato?»). Il limite del
romanzo sta nel fatto che il racconto si amplia, ma non si approfondisce nello
scavo psicologico. Dopo
tutto, anche A. Meis è un superuomo mancato e velleitario come gli eroi
dannunziani. La scappatoia del finto suicidio nel cap. xvi è il parallelo strutturale della prima fuga. Lo si vede
nel monologo («Io non dovevo uccidere me, un morto, io dovevo uccidere quella
folle, assurda finzione che m’aveva torturato, straziato due anni,
quell’Adriano Meis»): il progetto libertario di A. Meis si riduce ad un nome
falso: davvero poco! 4.
L’esito del romanzo: da Mattia Pascal al fu Mattia Pascal Il
ritorno è descritto nei due ultimi capp. (xvii-xviii).
Abbiamo detto che non c’è catarsi: l’io è estraniato, cioè alienato,
senza più nulla; così si accorge di essere
Mattia quando guarda dentro se stesso, quando si accorge di essere non un
reduce, ma un reietto («Nessuno mi riconosceva perché nessuno pensava più a
me») Qui scatta l’umorismo di Pirandello (e cosa c’è di più tragico
dell’umorismo?): il fallimento esistenziale di chi ha preteso di «veder
vivere» gli altri si afferma nel momento in cui Mattia va a vedersi morto e
sepolto (colpito da avversi fati mattia
pascal bibliotecario cuor generoso anima aperta qui volontario riposa la pietà
dei concittadini questa lapide pose): è l’omaggio di un morto ad un
morto! La perdita di identità è sancita dal fu
(il romanzo termina con queste parole: «Io sono il fu Mattia Pascal»). La
situazione è veramente paradossale: l’io narratore, pur continuando a vivere
è fuori dell’esistenza, in una condizione estraniata, privo persino del
proprio nome. E’ il fu Mattia Pascal che rievoca Mattia Pascal e Adriano Meis
per attestarne il reciproco annullamento finale. La particolarità strutturale e
stilistica dell’intreccio sta proprio nella sottile interferenza dell’io
narratore nelle vicende dell’io narrato. 5.
L’originalità della struttura narrativa Si
è detto che il romanzo comincia en arrière.
Con questo artificio (si ricordi che la letteratura è il luogo
dell’artificio!) Pirandello vuole sottolineare la distanza tra il tempo
della scrittura e il tempo
dell’avventura. Il primo insiste direttamente sull’io narratore, nella
sua posizione ormai extradiegetica (è fuori dalla storia che racconta), in
quanto la strana avventura della sua esistenza può dirsi finita con lo scacco e
l’autonegazione del personaggio protagonista. Il tempo
dell’avventura si riferisce alla rievocazione della vita di Mattia Pascal,
a partire dal cap. iii (La
casa e la talpa). L’intreccio dei due ordini può essere rappresentato così:
A-C:
dimensione complessiva del romanzo A-B:
spazio dell’io narratore straniato B-C:
arco della storia in cui si insinua la breve rottura extradiegetica del finale
del cap. iii. Il
fatto che la vicenda parta dalla fine comporta importanti conseguenze sul piano
della struttura narrativa. In primo luogo, la coscienza da parte dell’io
narratore dell’esito della vicenda (il proprio fallimento, da cui la posizione
estraniata rispetto ai fatti e alla possibilità di comprenderli secondo canoni
naturalistici. In secondo luogo, il raggrupparsi nei capp. i-ii
dell’area del presente, sia nella breve autopresentazione iniziale («Una
delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi
chiamavo Mattia Pascal»: l’unica certezza è l’autonominabilità), sia
nella «premessa seconda» in cui l’io narratore ha coscienza della
problematicità “copernicana” del protagonista (l’estraniazione è
massima: «posso già considerarmi fuori della vita»). Col
cap. iii inizia il racconto
retrospettivo, che però è filtrato dalla coscienza negativa proposta nelle
prime pagine. L’io narratore comincia ad usare i verbi al passato,
identificandosi con l’agens della
storia (Mattia Pascal o Adriano Meis). Tuttavia, qua e là traspare la voce del
narratore nella sua attualità, quando il verbo del presente denuncia il
ridimensionamento del racconto rispetto all’ottica del discorso (il punto A),
ossia l’interpretazione negativa del fu
Mattia Pascal. Le
osservazioni sull’intreccio confermano che la novità del romanzo consiste
nella compresenza del monologo interiore e del soliloquio, difficilmente
districabili per l’interferenza dell’io narratore estraniato, che tende a
riportare i dati della memoria e della coscienza all’attualità negativa. Nei
momenti di maggiore concentrazione, i due modi della narratività (la mimesi e
la diegesi, cioè la narrazione e la descrizione) si integrano perfettamente (cfr. fine del cap. xv).
6.
Mattia personaggio comico Mattia
appartiene a buon diritto alla moderna schiera dei personaggi negativi, degli
“inetti”: come i personaggi di Svevo, è in organica disarmonia con il modo
in cui vive e con le persone con cui viene a contatto, incapace com’è di
vivere “normalmente” e alla ricerca di uno spazio adeguato di solitudine.
Sennonché, per riconoscersi in un ruolo di non-adatto-alla-vita, ha bisogno
dell’aiuto di casi estremi, come quello del dissesto economico, di una moglie
pestilenziale e di una suocera addirittura demoniaca, così che la sua fuga dal
paese può sembrare “naturalisticamente” giustificata se non conoscessimo la
natura “aprioristica” del suo disagio, di quell’umore del temperamento che
lo porta a vedere “con altri occhi” la vita e il mondo, oltre che se stesso
(si ricordi che Mattia è strabico, non a caso). Ma questo personaggio non
conosce ancora abbastanza il suo potenziale “umorismo” e non è perciò in
grado di imprimere alla sua vicenda le svolte che la graduale presa di coscienza
del proprio essere diverso potrebbe procurargli: la sua “conversione” per
verificarsi ha bisogno di un intervento massiccio del comico. Il “comico”,
per il nostro personaggio, è quello che fa morire quel tale scambiato per
Mattia, tanto che egli può diventare un fu,
entrando così in un regime di perfetta disponibilità di sé, tanto più che la
favolosa vincita al casinò gli dà la più completa libertà economica
(bastasse quella...). Ma il fu Mattia, diventato Adriano Meis, non diventa
davvero un altro, non compie una vera conversione verso quell’autenticità e
quella liberazione che la sua natura oscuramente reclama, e finisce nuovamente
irretito da quella socialità che non è capace di superare perché resta il suo
unico, e da lui riconosciuto, mondo degli uomini e della “ragione”. Meglio
allora suicidarsi e ritornare ad essere il vecchio Mattia: e qui il “comico”
prende davvero la mano allo scrittore, perché, se il caso di un supposto
suicidio può verificarsi, la sua ripetizione è fuori da ogni probabilità (non
ci si suicida due volte!). Dato per morto una volta, Mattia non è stato in
grado di risorgere a vita nuova perché incapace di ascesi umoristica: ha voluto
rimanere un uomo sociale e ne paga le conseguenze con il dover riprendere le
antiche sembianze, con però l’ulteriore complicazione (ultima irresistibile gag)
di ripresentarsi in un ambiente che ormai lo ha espulso e che non può più
fargli spazio (Mattia vive sepolto nei libri a scrivere la sua storia, forse
perché solo la letteratura può offrire l’ultimo rifugio per chi non è più
niente!). Note
tratte da: A.
Marchese, Introduzione
alla semiotica della letteratura, SEI, Torino 1981. E. Gioanola, L’esistenza alienata: Svevo e Pirandello, SEI, Torino 1976.
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