Una letteratura "di genere"

Abbiamo già detto più volte del successo incontrato nell'ultimo ventennio del secolo appena trascorso da libri che recuperano il gusto e il diverti­mento di raccontare storie. Si tratta certo d'un processo innovativo, visto il pregiudizio di aulicità che ha reso così rara ed esile, nella moderna narrativa italiana, una vena di libera affabulazione. Sta di fatto che un auto­re come Maurizio Maggiani (1951), narratore dalla vena ispirata, appassionata, avventurosa, è davvero una rarità nel panorama del nostro Novecento; e non è un caso se in Giuseppe Pontiggia (1934) la vena più limpidamente affabulatrice emerge solo nei romanzi e racconti scritti a partire dagli anni Ottanta, per trionfare soprattutto in quell'originale rac­colta di microromanzi che è Vite di uomini non illustri (1993).

Questa rinnovata esigenza di racconto si avvale spesso delle modalità dei generi di consumo più popolare: dal romanzo giallo a quello horror, dal romanzo sentimentale a quello comico.

Senza pari, certamente, il successo del romanzo giallo. Benché in Italia non ci sia una tradizio­ne vera di detective story, negli ultimi decenni il ricorso al giallo diventa inarrestabile, anche se noi ci limitiamo a ricordare l'opera di Carlo Lucarelli (1960) e quella, avviata in tarda età ma fortunatissima, di Andrea Camilleri (1925).

Alla tentazione del genere giallo non sembra sottrarsi neppure Tondelli (Rimini, 1985), né lo stesso Tabucchi. Romanzi come Il filo dell'orizzonte (1986) o La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), in parte lo stesso Sostiene Pereira (1994), che è stato il suo libro di maggior successo, si possono considerare dei gialli, per quanto gialli sui generis, dato che di solito le storie faticano a trovare una conclusione, restano aperte, come in sospeso: «racconti mancati» li definisce l'autore stesso.

Al genere patetico-sentimentale appartiene quello che in Italia ha costi­tuito il più clamoroso successo degli anni Novanta, il romanzo Va' dove ti porta il cuore (1994) di Susanna Tamaro (1957): libro di grandi problema­tiche (le ipocrisie della società che conta, le tragiche vie della rivolta gio­vanile, l'incomprensione dei genitori verso i figli e dei figli verso i genito­ri...), espresse con rara semplicità, talora ridotte a formule stereotipate e accompagnate da una costante mozione degli affetti, dall'esito assoluta­mente pacificante e consolatorio. Ben diversi erano la crudeltà senza con­solazione e il rigore stilistico implacabile che avevano caratterizzato Per voce sola (1991), la raccolta di racconti con cui la Tamaro aveva esordito, dopo alcune prove dedicate ai ragazzi, nella grande narrativa.

Abbiamo accennato anche ad una rinascita del romanzo comico, di cui sono antecedenti prossimi, negli anni Settanta, alcuni testi di Gianni Celati (1937) (da Comiche, 1971, a Lunario del paradiso, 1978), che si col­locavano nel solco del romanzo comico di tradizione padana (Folengo, Ruzante). Vicini per certi versi a quella tradizione, che lo stesso Celati a un certo punto abbandona, sono i romanzi e racconti di Stefano Benni (1958): Terra! (1983), Comici spaventati guerrieri (1986), La Compagnia dei Celestini (1992) ed altri. Sono libri dal ritmo frenetico, dove l'invenzio­ne comica ininterrotta si esprime in un linguaggio che attinge a tutte le fonti della comunicazione contemporanea (cinema, fumetti, soprattutto televisione e pubblicità). Ciò che spinge Benni alla scrittura - caso non frequente in questi anni - è una forte esigenza etica ed una irriducibile utopia libertaria, implacabile nel colpire la corruzione, il cinismo, la volgarità, la spensierata indifferenza che da ogni parte ammorbano l'Italia di fine secolo.

Non si può infine trascurare, in un ragionamento sui generi letterari, un tipo di produzione che, nel tentativo di stabilire un nuovo rapporto tra let­teratura e realtà, tende a superare i confini fra un genere e l'altro e a col­locarsi in una zona intermedia tra tipologie diverse: tra saggistica e nar­rativa, oppure tra reportage e racconto.

A questo incerto terreno appartiene Campo del sangue (1997) di Eraldo Affinati, intenso diario di un viaggio-pellegrinaggio, compiuto prevalentemente a piedi, da Venezia al campo di Auschwitz. Ma il capo­lavoro di questo tipo di scrittura è Danubio (1986) di Claudio Magris, straordinario viaggio lungo il grande fiume alla ricerca del passato, del presente e del futuro dell'Europa (e di ciascuno di noi).

A metà, invece, tra il racconto e la cronaca si collocano i testi di scrit­tori che, pur abbandonando per l'occasione la fiction per farsi giornalisti, reporter, non rinunciano alla loro attitudine ad organizzare la realtà secondo strutture narrative. Ne abbiamo un esempio dei migliori nelle Cronache italiane (1992) di Sandro Veronesi (1959).