Mercato culturale e valore della letteratura

Se diamo uno sguardo d'insieme alla produzione letteraria del venten­nio Ottanta-Novanta, constatiamo che gli autori di libri ben costruiti e ben scritti sono di­verse decine ed è facile rischiare l'arbitrarietà sia nel tentarne una sele­zione sia nel cercarvi degli elementi unificanti. Forse il vero fattore unifi­cante è quello costituito dalla generale tendenza ad una letteratura che, dopo le vertigini dello sperimentalismo neoavanguardistico, recupera modi di narrazione più tradizionali: passato il tempo della morte del ro­manzo, quello degli antiromanzi, si ritorna al romanzo-romanzo, con tan­to di trama, di intreccio, di personaggi. Questo non significa, ovviamente, l'esaurirsi di tendenze innovatrici (stilistiche, tematiche, strutturali), ma i margini di «sperimentalismo», talora anche raffinato (si pensi al filone della «letteratura giovanile»), devono conciliarsi con i gusti dei lettori.

Non c'è spazio, per esempio, per le tipiche interrogazioni della neoa­vanguardia sulla rappresentabilità letteraria della realtà (sulla consisten­za stessa della realtà). La modalità di approccio al reale che predomina nei narratori di fine secolo si potrebbe definire genericamente realistica pro­prio per questa recuperata certezza sulla capacità della letteratura di ri­produrre il mondo. Il che non implica una effettiva disponibilità a indaga­re la realtà nel suo spessore; anzi, sulla capacità dei romanzi e dei racconti di questi decenni di dare una sintesi significativa del mondo contempora­neo è lecito avanzare più d'un dubbio (molti critici, del resto, denunciano in questa narrativa italiana di fine secolo «una desolante incapacità di rappresentare il nostro paese»).

Talora i narratori stessi sembrano rendersi conto di un realismo che non «morde» nella realtà, quando spingono la loro scrittura verso livelli di iperrealismo, manifestando cioè un gusto quasi maniacale del detta­glio, come se alla scarsa rappresentatività dell'insieme si volesse suppli­re con la minuzia del particolare (magari bizzarro o scioccante). L'iper­realismo è quasi sempre un segno di smarrimento del complessivo: come avviene in certi film recenti, dove il racconto - per esempio - di scene di violenza si traduce in dettagli ravvicinatissimi di carni straziate, in distil­lazioni rallentate di sangue ed altri umori corporei, ed il compiacimento dell'inquadratura «nuova» prevale sull'orrore della violenza inquadrata.

Cultura = merce

Il contesto degli anni di cui stiamo trattando registra il progressivo allon­tanamento dal clima politico-culturale degli anni Sessanta e Settanta, caratterizzato da una forte tensione etico-politica e da un diffuso atteggiamento di contestazione verso il sistema sociale consolidato. Sul terreno letterario, questo significa esaurimento dell’eredità di Officina e della neoavanguardia, ma anche indebolimento di un’idea di letteratura come approccio critico al mondo, che caratterizza tutto il Novecento. In sostanza, la fine di un modo di interpretare il mestiere di scrittore: ed è difficile non riconoscere anche questo significato nel fatto che tra la metà degli Ottanta e la metà dei Novanta scompare buona parte degli scrittori che avevano caratterizzato la nostra letteratura dal dopoguerra: Calvino, Morante, Moravia, Cassola, Sciascia, Volponi, Parise, Bilenchi, Primo Levi, Pratolini, Ginzburg, Caproni ed altri.

Il campo resta dunque sgombro per una generazione di autori nati quando il dopoguerra si era già concluso. Su di essi opera fortissima la spinta dell’industria editoriale a narrazioni di impatto più «popolare», capaci di allargare un mercato fin troppo asfittico. Si richiede quindi una letteratura che si affidi all'intreccio per catturare i lettori, che torni a praticare i generi della tradizione (il romanzo storico, per esempio) ed anche quelli di più facile consumo (il romanzo giallo, soprattutto, ma anche il romanzo rosa, il racconto horror, e così via). Non è raro, fra l'altro, che autori apparsi sulla sce­na con opere caratterizzate da una notevole novità tematica e stilistica, talvolta un po' ostica, attenuino la loro originalità a mano a mano che danno alle stampe nuovi libri (spesso passando da una piccola casa editrice ad una delle maggiori), nel tentativo di realizzare un prodotto medio che aumenti le tirature e spiani la strada verso il best seller.

Un itinerario del genere è percorso per esempio da scrittori come Andrea De Carlo o Susanna Tamaro, ma rappresenta una tentazione an­che per un autore sostanzialmente trasgressivo come Pier Vittorio Ton­delli. Per non parlare di scrittori più anziani di una generazione, come Lui­gi Malerba e Sebastiano Vassalli, formatisi nel Gruppo'63, e giunti a un ampio successo di pubblico con l'approdo a forme narrative più suadenti come il romanzo storico.

Si deve all'invadenza dell'industria culturale anche l'aumento della curiosità e della chiacchiera attorno alla letteratura: spesso la promozio­ne di libri si affida al battage mediatico (apparizioni televisive, servizi sui quotidiani nazionali, interviste dissacranti ... ). Il che peraltro non sembra produrre l'unico effetto positivo che ci si aspetterebbe, e cioè un signifi­cativo incremento dei lettori, anche perché la concorrenza degli altri media è sempre più poderosa (secondo un rilevamento fatto a metà degli anni Ottanta, i lettori abituali non raggiungono il 20%, mentre oltre la metà degli italiani non legge neppure un libro all'anno).

Il ruolo rilevante dell'industria culturale (di cui peraltro il versante editoriale non è il più significativo) è uno dei tratti distintivi di quello che è stato definito il postmoderno. La cultura diventa una merce come le altre, e dunque alle precedenti distinzioni che, nel campo artistico, sepa­ravano l'arte bassa da quella alta, l'arte di massa da quella di élite, l'arte commerciale da quella sperimentale, si sostituisce la distinzione, davvero dirimente, tra prodotti che hanno mercato e quelli che non ce l'hanno.

È dunque abbastanza paradossale che, in un tempo in cui la lettera­tura si riduce a rango di merce, trovino spazio tra gli scrittori concezioni di «ipervalorizzazione» della letteratura stessa.

Sappiamo che l'attacco della neoavanguardia alla società capitalistica ed ai suoi linguaggi non aveva risparmiato la letteratura; l'aveva anzi bol­lata come menzogna da sconfessare, e aveva definito l'arte del raccontare una mistificazione che pretende di portare ordine là dove è solo disordine e non senso. Uno scrittore come Luigi Malerba aveva concepito il suo romanzo Il serpente (1966) come una denuncia dell'impossibilità di nar­rare qualunque storia. Adesso invece è lo stesso Malerba che, approdan­do al romanzo storico (Il fuoco greco, 1989), assegna alla letteratura una funzione privilegiata di rivelazione e di verità. Questa idea alta dello scri­vere è presente in autori molto diversi, come Vincenzo Consolo o Antonio Tabucchi e spinge all'esperienza del romanzo storico Sebastiano Vassalli (solo la letteratura salva dal nulla in cui la Storia seppellisce ogni cosa).

Era stato Calvino a porre l'accento sul rinnovato valore della lettera­tura in un mondo in cui cadono ideologie capaci di dare al reale interpre­tazioni dotate di senso. In tempo di pensiero debole la letteratura assolve il compito di rappresentare il molteplice non più riducibile a unità.

Sul venir meno delle ipotesi di interpretazione complessiva del mondo ci siamo soffermati sopra, analizzando i caratteri della cultu­ra postmoderna. Su un altro ca­rattere dell'arte tardonovecentesca è utile invece soffermarsi brevemente in questa sede, ed è il cosiddetto citazionismo, al quale Umberto Eco si ri­ferisce, nelle Postille a Il nome della rosa, con la definizione di manierismo.

Alla fine di un'epoca in cui ogni mezzo espressivo è stato sperimenta­to, ogni esperienza ed ogni conoscenza provata, tutto ciò che era narrabi­le narrato, dopo che si è esaurita l'ambizione delle avanguardie di regola­re i conti col passato facendone tabula rasa, sembra restare come unica possibilità quella di rivisitare il passato, riutilizzandone i materiali per procedere a nuove combinazioni. «L'avanguardia distrugge il passato, lo sfigura [...]. Ma arriva il momento che l'avanguardia (il moderno) non può più andare oltre [...]. La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente» (U. Eco). Di qui la fortuna tardonovecentesca di una letteratura tutta costruita su citazioni, ammiccamenti, recuperi, e non solo della tradizione letteraria, ma anche del linguaggio del cinema, della televisione, dei fumetti, della musica.

Una sorta di manifesto di questo tipo di letteratura è, nell'Italia di fine secolo, il già citato Il nome della rosa (1980).

Ma un altro scrittore significativo di certi caratteri del postmoderno è Antonio Tabucchi (1943), anch'egli autore di opere in cui la rivisitazio­ne della letteratura si offre come via principale dell'approccio alla realtà.