La neoavanguardia

Il movimento della Neoavanguardia è negli anni Sessanta il fatto più nuovo e caratterizzante del panorama letterario italiano. Essa nasce su un terreno già preparato dalla battaglia per un nuovo sperimentalismo con­dotta, al finire del decennio precedente, dalla rivista «Officina», la quale indicava l'urgenza d'una stagione di grande innovazione formale, che pe­rò non restasse separata da un forte impegno di conoscenza e di denun­cia del presente. Le posizioni della rivista si traducevano - soprattutto nelle formulazioni di Pier Paolo Pasolini - in un appello etico, prima anco­ra che letterario, riproponendo sostanzialmente una idea del letterato come maestro, che avrebbe suscitato da parte dell'avanguardia nascente una polemica molto dura. Più dura, almeno, di quanto ci si sarebbe potu­to aspettare, vista la disponibilità di «Officina» verso il nuovo: ma la net­tezza di toni polemici, si sa, è un carattere delle avanguardie, e spesso non risparmia neppure i compagni di strada.

In effetti dal neosperimentalismo di «Officina» si sviluppò un filone di ricerca parallelo a quello neoavanguardistico, in cui si riconobbero per tutti gli anni Sessanta autori come Paolo Volponi, Roberto Roversi, Giovanni Giudici, lo stesso Calvino, finché verso la fine del decennio non si ebbe un riavvicinamento tra i due filoni in una sorta di nuova «koiné sperimentale» (R. Luperini).

Il nucleo più ampio e combattivo della Neoavanguardia, il Gruppo 63 (Edoardo Sanguineti, Alberto Arbasino, Francesco Leonetti, Alfredo Giuliani, Umberto Eco, Luigi Malerba, Elio Pagliarani, Renato Barilli, Antonio Porta, Nanni Balestrini), individuò come terreno privilegiato di opposizione al mondo presente - al consumismo, all'appiattimento dei valori culturali, alla disumanizzazione crescente della vita - il terreno lin­guistico. A dire il vero, già le avanguardie storiche del primo Novecento si erano caratterizzate per una sensibilità particolare, fatta insieme di attrazione e repulsione, ai linguaggi della società di massa, ma nella Neo­avanguardia post-bellica questa sensibilità linguistica si fa ancor più esa­sperata. I suoi autori sono convinti che il linguaggio non è uno strumen­to neutro, indifferente ai valori di cui è veicolo, e che dunque il linguaggio contemporaneo è intimamente segnato dai valori della borghesia capita­listica. L'ufficio ideologico che questa borghesia gli assegna è quello di nascondere il disordine sotto una parvenza di ordine e di dar senso all'in­sensatezza del mondo. Perciò solo aggredendo il linguaggio, disgregan­dolo, si può combattere quell'opera mistificatrice: solo producendo opere insensate - programmaticamente insensate - si può smascherare l'assur­do del presente.

Un esempio delle tecniche distruttive della lingua messe in campo dalla Neoavanguardia fu l’antologia «I Novissimi», curata nel 1961 da Alfredo Giuliani, dove furono raccolti testi di Pagliarani, Sanguineti, Balestrini e Porta, oltre che dello stesso Giuliani. Tra quei poeti assume­va un rilievo particolare Edoardo Sanguineti (1930), il quale aveva imboccato le strade di una sperimentazione audacissima in anticipo su tutti, se è vero che già dal 1951 aveva cominciato a lavorare ad un poe­metto, Laborintus, la cui novità non aveva precedenti nella lirica italiana.