Svevo e Pirandello: la personalità, la cultura, la scrittura

1. la personalità  

Tratti comuni

  • Provincialità: decentramento (ð letteratura non come dovere), strabismo.

  • Lontani dal condizionamento della tradizione.

  • Entrambi conoscono il tedesco e la cultura mitteleuropea (Italo-Svevo; università di Bonn).

  • Iniziale fedeltà alle tematiche naturalistiche; poi si rompe la catena deterministica perché si accorgono dello “strappo del cielo di carta del teatrino della vita” (Pirandello). Sono dotati di una “doppia vista”: precarietà, angoscia, indeterminazione, oltranza (Serafino Gubbio: “c'è un oltre in tutte le cose!”).

  • Iniziale incomprensione da parte del pubblico: “scrivono male” è l’accusa più frequente (ma chi ha qualcosa di nuovo da dire bada più al contenuto che alla forma).

  • Base dialettale: triestino e siciliano.

 

Tratti tipici: Svevo

  • Tipica famiglia borghese, formazione tedesca.

  • Rivolta contro il padre (cfr. Leopardi, Kafka), in nome dell’antiborghesismo.

  • Madre dolce, come la moglie Livia Veneziani (4.10.1895: muore la madre e i due si fidanzano).

 

Tratti tipici: Pirandello

  • Sottomissione al padre: moglie scelta dal padre (rigorosamente vergine): Antonietta Portulano.

  • Differenze culturale e di sensibilità con la moglie, incapace di amarlo: amava senza essere amato.

  • Tema della gelosia.

  • Sessuofobia: sublimazione del sesso (scapoli, vedovi, mal sposati compaiono spesso nelle sue opere).

  • Oscillazione tra sadomasochismo distruttivo e rigorismo morale

  • Scrittura come fuga dalla vita (cfr. sotto) .

 

 

2. la cultura

  • ripudio del causalismo deterministico;

  • decentramento della coscienza;

  • umorismo (Pirandello) e ironia (Svevo);

Nella diade voluntas-noluntas di Schopenhauer, Svevo trova lo strumento concettuale per il suo antirazionalismo: noluntas ð ascesi ð inettitudine. Per Svevo l’inetto è colui che soffre di solitudine, che è incapace di godere (perché tra il desiderio e l’ottenimento c’è di mezzo il pensiero), ma è anche colui che interrompe il determinismo; l’inetto è un pessimista ottimista. L’inetto è inadatto non alla vita in assoluto, ma alla vita così com’è; accorgendosi della propria inettitudine, l’uomo è veramente tale: la malattia (= accorgersi di essere uomini) è un modo per ritardare l’entropia e la morte. In sintonia con Darwin, Svevo riconosce nell’uomo il prodotto più fragile dell’evoluzione, ma anche il più dotato perché quella malattia che è l’intelligenza gli consente di evitare il determinismo biologico. L’intelligenza non è più attività indagatrice del reale, ma intuizione creatrice. L’alternativa è tra l’essere felici e stupidi oppure intelligenti e infelici.

Ironia: è l’equivalente, sul piano espressivo, della consapevolezza della differenza tra ragione e intelligenza: si pensa di vivere e invece si è vissuti, di parlare e invece si è parlati, di scegliere e invece si è scelti. L’ironia nasce dal contrasto tra conscio e inconscio; è prendere atto che le cose stanno così; è la consapevolezza degli infiniti risvolti problematici delle cose.

Umorismo: vedere la vita con occhi nuovi genera umorismo; mentre il comico è il capovolgimento inaspettato di una situazione (esterno), l’umorismo è il sentimento del contrario (interno). Il comico sta all’umorismo come il caso sta alla consapevolezza: se in un primo tempo lo scacco al determinismo viene da un evento casuale, in seguito esso è affidato alla coscienza dei personaggi.

 

3. la diade “scrittura-vita”

Se Pirandello si salvava dalla vita nella scrittura, Svevo si salvava dalla scrittura nella vita. Bisogna porre nel dovuto risalto il caso singolarissimo di Svevo che si trovò, per un verso “obbligato” a scrivere da una vocazione irresistibile, e, per un altro, impossibilitato ad esercitare con un minimo di agio la sua “professione” dall’assoluta mancanza di ascolto da parte del grande pubblico e della critica; fallito completamente come scrittore, si “convertì” a quell’esistenza la cui impraticabilità era stata tema dei suoi interessi di scrittore. In questo senso, il matrimonio fu il fatto decisivo della sua vita: oltre al respiro esistenziale che gli offrì, gli aprì anche la possibilità di diventare un attivo uomo d’affari (perché più si agisce, meno si pensa: si veda Leopardi); egli visse da buon borghese e, invece della penna, impugnò l’archetto del violino (ma la musica non è forse un sostituto della letteratura? In entrambe di tratta di soddisfare un’esigenza estetica). Mentre Pirandello non ha difficoltà a pubblicare e a trovare un suo pubblico (inoltre svolgeva una professione affine alla sua attività di scrittore), Svevo, nella Trieste commerciale e senza tradizioni, e con un tipo di letteratura dai contenuti così nuovi, non riuscì a farsi prendere sul serio come scrittore e dovette scegliere l’azione”: struggle for life vs letteratura (come in Kafka, del resto)[1].

Ma, al di là delle opposte contingenze, i due scrittori offrono un caso parallelo di profonda crisi del rapporto scrittura-vita, nel senso che entrambi hanno avvertito l’impossibilità di conciliare l’esercizio dello scrivere con il “mestiere di vivere” (come siamo lontani da Manzoni!): la loro intuizione di fondo è quella dell’impossibilità di “vivere così”, di adeguarsi cioè alle strutture esistenziali e sociali della vita. A Pirandello la vita appare come “un’enorme pupazzata” o “un cieco, immenso labirinto”, e a Svevo come “una grande nullità e vanità di sé”: scrivere diventa, allora, l’unica alternativa a questo accorgersi del non-senso dell’esistenza, cioè un vero e proprio modo di sopravvivenza. Non si metterà mai sufficientemente in risalto come la vita (con quella sua imprescindibile contingenza che è la morte) sia l’unico tema di tutta l’opera dei due scrittori, la cui ricerca artistica è unicamente ricerca esistenziale (è sempre una questione di stile, come già in Leopardi); il fatto stesso dell’accorgersi di ex-sistere (si vive solo guardandosi vivere!) rende immediatamente inabili, “inetti”, a sistemarsi tranquillamente nel flusso della vita e ad accettare tranquillamente il ruolo che ad ognuno è assegnato dalle esigenze del vivere associato.

Scrivere, perciò, significa non-vivere: o nelle forme dell’analisi della propria inettitudine (Svevo)[2] o in quelle della sceneggiatura di tutti i modi inautentici, paradossali, tragici, grotteschi della vita (Pirandello). E’ naturale quindi che l’estraniamento mediante il quale ci si sottrae al flusso dell’esistenza consegni al problema della morte: i due scrittori convergono anche su questo tema e la loro intuizione del non-senso del vivere fa tutt’uno con la scoperta che l’unico senso del vivere è la morte. Scrivere, allora, diventa, oltre che lo smascheramento dell’assurdo esistenziale, epifania del dover morire e difesa contro di esso[3]. Svevo è ossessionato dal pensiero della vecchiaia e il tema della vecchiaia si incrocia con quello della malattia, in una continua auscultazione del funzionamento del proprio organismo[4]. E’ evidente che il sentirsi vivere (ex-sistere), provocato dal collocarsi come osservatore sulle sponde della vita (ci si guarda passare il fiume della nostra esistenza, sempre uguale e sempre diversa, in un eracliteo panta rei), fa tutt’uno col sentirsi morire. Tutta l’ultima parte della vita di Svevo, circondato dal finalmente raggiunto successo (europeo prima che italiano), è caratterizzata dalla lucida coscienza della propria vecchiaia e dall’adeguamento dell’esistenza alle esigenze dell’”uomo vecchio”, in una concentrazione narcisistica su se stesso.

Alla “concentrazione” di Svevo si contrappone la “dispersione” di Pirandello: lascia la moglie, i figli sono adulti, il successo è su scala mondiale, si dedica solo al teatro, viaggia, abbandona la casa in cui è sempre vissuto. In pratica, l’ultimo Pirandello è colui che fugge di fronte alla paura delle “forme” e di quella “forma” per eccellenza che è la morte; la dispersione è un tentativo estremo di aderire alla vita come eterno fluire e mutare, e di entrare, al di là dei limiti cronologici, nei ritmi informali della durata (si vedano le disposizioni per la sua morte[5]).

  Tutto il grande viaggio di Mattia è stato inutile, perché egli non ha trovato il proprio io, e dannoso, perché ha perso anche il proprio nome. Il viaggio è concluso così come Mattia ha concluso la propria esistenza: si è nella misura in cui si ha un nome, e si ha un nome perché ci viene dato. Chiamarsi è una funzione della socialità, essere per gli altri e perciò l'essere dipende dagli altri e consiste tutto in un rapporto.

Mattia comincia a scrivere nel momento in cui è diventato un FU: la sua scrittura non sorga dalla necessità di dire qualcosa, ma dalla condizione del non esserci: scrivere è il tentativo di dimostrare soprattutto a se stesso di essere ancora in qualche modo vivo. Ora che ha perso il suo nome, ha perso anche l'unica certezza e non gli resta altro che scrivere. Nella sua biblioteca egli comincia a scrivere perché ha smesso di vivere e può continuare a vivere solo nella scrittura. Essere fuori dalla vita per smarrimento dell'identità comporta almeno il vantaggio di poter scrivere e leggere “senza obblighi e senza scrupoli”. Questi sono i vantaggi dell'umorismo.

 


[1] “Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna alla mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna mi aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: In corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire e per parlare” (I. Svevo, Diario in data 2 ottobre 1899; Opera omnia, III: Racconti, saggi, pagine sparse, a cura di B. Maier, Dall’Oglio, Milano 1968, p. 816). [torna su]

 

[2] “Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentare di portare a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che non sia il o no sia puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più. Altrimenti facilmente si cade, -il giorno in cui si crede d’esser autorizzati di prender la penna- in luoghi comuni o si travia quel luogo proprio che non fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza!” (I. Svevo, Diario, in data dicembre 1902; Opera omnia, III, cit., p. 818). [torna su]

 

[3] “Io ho sempre pensato alla morte e credo che tutta la mia attività sia risultata dal mio sforzo di sfuggire a quel pensiero doloroso (...) E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho, tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso” (I. Svevo, le confessioni del vegliardo, in Opera omnia, III, cit., pg. 372). [torna su]

 

[4] “Io non mi sento vecchio ma ho il sentimento di essere arrugginito. Devo pensare e scrivere per sentirmi vivo perché la vita che faccio tra tanta virtù che ho e che mi viene attribuita e tanti affetti e doveri che mi legano e paralizzano, mi priva di ogni libertà. Io vivo con la stessa inerzia con cui si muore. E voglio scuotermi, destarmi. Forse mi farò anche più virtuoso e affettuoso. Appassionatamente virtuoso magari ma sarà virtù veramente mia e non esattamente quella predicata dagli altri che quando l’ho indossata m’opprime invece di vestirmi. O smetterò codesto vestito o lo saprò foggiare per il mio dosso. Perciò lo scrivere sarà per me una misura d’igiene cui attenderò ogni sera poco prima di prendere il purgante. E spero che le mie carte conterranno anche le parole che usualmente non dico, perché solo allora la cura sarà riuscita” (I. Svevo, Il vecchione, in Opera omnia, III, cit., pg. 136). [torna su]

 

[5] “I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici e ai nemici preghiera, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.

II. Morto, non mi si vesta. Mi si avvolga nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.

III. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.

IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l'urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui”. [torna su]