HOME PAGE DI LUCIANO ZAPPELLA

Modernità, Romanticismo, romanzo e "prosa del mondo"

Il periodo che va dal Congresso di Vienna (1815) ai tentativi rivoluzionari del 1848 e che in Italia continua sino all'Unità (1861) corrisponde all'affermazione, in tutta Europa e negli Stati Uniti, non solo del Romanticismo, ma anche della mo­dernità. Crollato, con la rivoluzione francese, l'ancien régime di derivazione feudale, aperte nuove prospettive scientifiche, tecnologiche e industriali, affermatasi una nuo­va idea del sapere grazie all'Illuminismo, nascono gli stati nazionali con le istituzio­ni liberali su cui si fonda ancora oggi la vita politica dell'Occidente.

Considerato nel quadro della modernità, il Romanticismo chiarisce i suoi carat­teri complessi. Nella poesia lirica, esso afferma anzitutto i diritti dell'individuo e la sua aspirazione alla totalità e all'assoluto: è quello che accade soprattutto in Inghilterra e in Germania. Questa tendenza può trovare voce anche nella narrativa. In par­ticolare, si sviluppa in questi anni il racconto fantastico: da una parte, si celebra iro­nicamente l'evasione dalla realtà in un mondo sognante e, talvolta, sottilmente in­quietante (è il caso, in Germania, di Hoffmann); dall'altra, si scava nei meccanismi che rivelano le debolezze e i segreti della coscienza, insistendo sugli aspetti allucinatori (come fa, negli Stati Uniti, Poe).

Eppure, non è questo il terreno specifico del romanzo. Esso, infatti, si fonda piuttosto sull'esame e sulla conoscenza della realtà storica e sociale degli uomini. L'ideale, il sogno, la fantasia hanno in esso un ruolo importantissimo: ma perché si confrontano sempre con il reale, il presente, il concreto.

Questa attenzione al mondo si esprime già nel romanzo storico, il genere che inau­gura la nascita del romanzo moderno e ha il suo massimo periodo di diffusione in tutta Europa fra anni Venti e Quaranta dell'Ottocento. Walter Scott, che lo lancia, ha un atteggiamento duplice. Da una parte, cerca di ricostruire con precisione e at­tendibilità gli scenari del passato, in cui cerca le radici della storia presente; dall'altro, vede il passato come un tempo romanzesco, avventuroso, "poetico". Si realizza in questo modo la mistione di realismo e spirito fantastico tipica dell'età romantica.

Eppure, è soprattutto il primo aspetto (quello, cioè, dello studio attento della realtà) a determinare lo sviluppo successivo del romanzo. Già i Promessi sposi se­gnano, nell'ambito dello stesso genere, un'evoluzione decisiva. Per Manzoni, infatti, il passato non è affatto un'epoca favolosa o poetica: al contrario, è un'epoca i cui pregiudizi e i cui errori vanno smascherati dalla ragione; ed è un'epoca in cui tut­to quello che accade è pienamente verisimile. Quello che scopre Manzoni è insomma la «prosa del mondo»: cioè la realtà storica e quotidiana priva di aloni fantastici e di travestimenti, ma ricca, interessante e in sé stessa romanzesca.

L'espressione «prosa del mondo» deve il suo successo al grande filosofo idea­lista che l'ha coniata all'inizio dell'Ottocento, il tedesco G. W. Hegel. In lui, il discorso tiene presente i due poli di ideale e reale di cui parlavamo, visti nella loro stretta correlazione. L'uno, il polo soggettivo dell'ideale, si oppone all'altro, il polo oggettivo della realtà sociale; il primo esprime il sogno, le fantasia, le aspi­razioni ideali, il secondo le dure leggi della vita associata e le costrizioni materia­li della realtà; il primo preferisce la poesia, il secondo la prosa romanzesca.

I due poli spesso si confrontano all'interno della produzione di uno stesso autore. Basti pensare a Manzoni: nei Promessi sposi la storia, studiata con attenzio­ne scientifica, si confronta sempre con le forze trascendenti della religione: sia per­ché, seppure misteriosa e talvolta incomprensibile, esiste una Provvidenza; sia per­ché i personaggi positivi (da Lucia a padre Cristoforo, da Renzo al cardinale Borromeo) cercano sempre di calare nel mondo concreto il loro ideale cristiano. L'e­roe è dunque colui cui spetta il compito di mediare fra ideale e reale.

Questa strada del confronto fra ideale e reale, che è la strada del realismo, è perseguita con ancora maggior convinzione in Francia. Gli eroi di Stendhal (Ju­lien Sorel in Il rosso e il nero, Fabrizio del Dongo nella Certosa di Parma) sono pe­rò eroi destinati al fallimento: in loro l'ideale è la passione romantica che non ri­esce a trovare mediazioni con la realtà e, perciò, finisce per travolgere l'individuo. In Balzac, invece, prevale l'aspetto dell'attenzione scientifica al mondo sociale, sto­rico, economico. Nella Parigi e nella Francia contemporanee, analizzate con la stes­sa meticolosità con cui Manzoni studiava la Milano del Seicento, Balzac trova le fonti del romanzo. La realtà di tutti i giorni, insomma, è già di per sé romanze­sca. Per questo, e per il suo metodo narrativo, si può dire che Balzac costruisca dei romanzi storici della contemporaneità. Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte per l'inglese Dickens: anch'egli scopre che la realtà sociale dei suoi tempi è di per sé romanzesca.

Dovendosi muovere in un mondo come questo - cioè un mondo retto dai con­dizionamenti della storia, delle lotte sociali, dell'economia, della politica - l'e­roe romanzesco avrà caratteristiche diverse rispetto al soggetto lirico della poe­sia contemporanea. Egli deve infatti sempre misurarsi con il mondo che lo cir­conda, sente sempre su di sé i vincoli della realtà sociale con cui deve confron­tarsi per affermare il proprio progetto di vita. Mentre la poesia lirica è il gene­re in cui il soggetto parla di sé e dei propri sentimenti mettendo in secondo pia­no la realtà sociale, il romanzo è il genere in cui si parla del mondo collettivo e in cui l'eroe risponde e parla continuamente a quel mondo per cercare di do­minarlo. Il romanzo mette perciò in scena lo scontro fra la «poesia» dell'idea­le e la «prosa» del reale; ma in esso è il secondo aspetto a condizionare sempre il primo e spesso a prevalere (anche per via del cosiddetto "patto narrativo").

Infatti, per poter leggere e interpretare in modo corretto un romanzo o una novel­la, il lettore deve accettare il patto che gli viene silenziosamente proposto dall'au­tore e comportarsi di conseguenza. Il poeta inglese S T Coleridge (1772-1834), cercando dl chiarire la natura di tale fe­nomeno, parlava di una «sospensione volontaria dell'incredulità» esercitata, da parte di chi legge, nei confronti di ciò che è detto nel testo. Nella moderna teoria letteraria è chiamato patto narrativo (o patto finzionale) il tipo di contratto sti­pulato, di comune accordo, da autore e lettore allo scopo di garantire iI corretto approccio a una qualsiasi opera di fin­zione narrativa. Ma come si giustifica, da un punto di vista logico, che qualcuno possa dare credito a un enunciato il cui contenuto è (a volte palesemente) falso? Il linguista statunitense John Searle ha formulato la questione più o meno nei se­guenti termini: in un enunciato di tipo narrativo l'autore finge di fare un'affer­mazione vera mentre il lettore, dal can­to suo, finge che ciò che gli viene rac­contato sia realmente accaduto. Secon­do Searle, inoltre, il patto finzionale scat­ta in presenza di precise informazioni (come, per es., l'indicazione “romanzo” sulla copertina del libro) oppure di se­gnali convenzionali e istituzionalizzati (del tipo “C’era una volta…”). Se venissero a mancare del tutto informazioni di que­sto genere sarebbe impossibile, in mol­ti casi, decidere con sicurezza se una narrazione debba essere letta e inter­pretata come un'opera di finzione op­pure no (vi sono infatti narrazioni, come ad es. l'autobiografia, in cui il patto fin­zionale non deve essere chiamato in causa).

 

© luciano zappella