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5. Resistere?

Ci sono stati episodi di rivolta nel cuore stesso dell'operazione di sterminio. Nella fase finale dell'«operazione Reinhardt», il 2 agosto 1943, seicen­to detenuti ebrei di Treblinka si ribellano, seguiti da quelli di Sobibór, il 14 ottobre dello stesso anno. Ad Auschwitz, i detenuti ebrei della «corvée speciale» del crematorio IV si rivoltano il 6 e 7 ottobre 1944. Il cre­matorio e la camera a gas vengono distrutti, ma la ri­bellione fallisce.

La resistenza ha la meglio quando svanisce la spe­ranza. E quando l'informazione sulla distruzione ra­dicale del popolo ebraico diventa non solo una certezza ma una consapevolezza. Cosí, solo nella fase piú pe­sante delle deportazioni verso Treblinka, alla fine del giugno 1942, viene istituita nel ghetto di Varsavia l'Organizzazione ebraica di combattimento, al prezzo di mille difficoltà e praticamente senza aiuto da parte della Resistenza polacca. Nell'aprile 1943, quando il ghetto viene liquidato, la Resistenza ebraica si lancia in un combattimento conclusivo, del quale ha sempre previsto l'esito senza sbocchi sul piano militare. Si tratta soltanto, dice il capo della rivolta Mordechai Anielewicz, di scegliere la propria morte. Per oltre tre settimane, meno di settecentocinquanta combattenti tengono testa a un nemico numericamente forte e ar­mato fino ai denti che trasforma il ghetto in un bra­ciere, affumica le fogne e riduce gli edifici a un am­masso di pietre sotto cui vengono sepolti vivi migliaia di clandestini del ghetto.

Sempre a Est, riuscirono a costituirsi alcune esigue formazioni ebraiche di combattenti. Prive di sostegno logistico e scarsamente armate, esse dovettero lottare non solo contro i tedeschi e i loro ausiliari lettoni o ucraini, ma anche contro la resistenza polacca che li braccava.

La «Soluzione finale» implicava discrezione e rapi­dità, e anche se nel 1942 1'essenziale avrebbe potuto esser noto (per lo meno a Est, non certo a Ovest), sa­pere è una cosa, interiorizzare la conoscenza è un'al­tra. Lo spirito rifiuta la prospettiva dell'assassinio. L'angoscia di morire porta alla serializzazione degli in­dividui, e al loro isolamento. Essa induce, poi, la «teo­ria del domino»: ciascuno pensa che la tempesta si ab­batterà sulla comunità vicina.

Inoltre, il terrore, la fame e lo sfinimento indebo­liscono progressivamente le difese fisiche e psicologi­che. Per di piú, il primo conflitto mondiale aveva in­segnato a diffidare delle «frottole di guerra». E se la «notizia» del grande massacro fosse, appunto, una di queste ?

A Ovest, infine, piú della mentalità della diaspora, a spezzare la resistenza sarebbe stata l'emancipazione stessa. In che modo l'individuo, la cui appartenenza al­la religione ebraica non è più, in realtà, che un fatto privato, avrebbe potuto difendersi dalla persecuzione condotta da uno Stato di diritto contro i suoi stessi cit­tadini? In effetti, le comunità ebraiche sparse in Europa, spesso con pieno diritto di cittadinanza, non formavano più un popolo inteso come nazione. È questo il motivo per cui la persecuzione fu cosí facile e la resistenza, invece, cosí difficile... Il contesto umano, co­sí come le condizioni geografiche locali (montagne, foreste, ecc.), furono determinanti e permettono di capire perché a Ovest, e particolarmente in Francia, i problemi di sopravvivenza furono minori che nei Pae­si Bassi, e piú ancora che a Est: in Polonia, in Ucraina e negli Stati baltici.

 

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© luciano zappella