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6. Il silenzio delle nazioni.

A partire dalla fine del 1941 numerose richieste di aiuto da parte delle comunità ebraiche giungono ai re­sponsabili del Congresso ebraico mondiale in zona neu­tra, nello Yishouv, e ai responsabili ebrei americani.

Sempre alla fine di quell'anno, le informazioni sul genocidio arrivano in abbondanza agli Alleati. Gli in­glesi, che hanno scoperto i codici tedeschi di comuni­cazione, dispongono dei messaggi emessi dagli Ein­satzgruppen nell'autunno 1941. Tuttavia, salvo rare ec­cezioni, queste conoscenze vengono tenute segrete. Nell'agosto 1942, Gerhardt Riegner, rappresentante del Congresso ebraico mondiale in Svizzera, manda a Londra e a Washington un telegramma che conferma ciò che ai vertici è già risaputo. Egli stesso è stato infor­mato il mese precedente da Edouard Schulte, un in­dustriale tedesco. «Ricevuta notizia allarmante circa discussione ed esame, al Quartiere generale del Füh­rer, di un piano secondo il quale, dopo deportazione e concentrazione nell'Est, tutti gli ebrei dei paesi occu­pati o controllati dalla Germania per un totale di tre milioni e mezzo-quattro milioni di persone devono es­sere sterminati per risolvere definitivamente la que­stione ebraica in Europa. Esecuzione prevista per l'au­tunno, si studiano i metodi, compreso l'acido cianidrico. Trasmettiamo informazione con riserva non potendo essere confermata la sua esattezza. Informatore considerato in stretti rapporti con le piú alte autorità tedesche e quindi in grado di comunicare notizie ge­neralmente affidabili».

Alla fine del 1942, Jan Karski, corriere del gover­no polacco in esilio che ha visitato due volte il ghet­to di Varsavia, riferisce le sue impressioni a Londra e a Washington. Il suo resoconto non ha seguito. Nell'agosto 1943, viene consegnato al governo ame­ricano un rapporto polacco su Auschwitz. Nel giugno 1944, due ebrei slovacchi, Vrba e Wetzler, evasi da Auschwitz due mesi prima, portano la loro testimo­nianza. A ciò si aggiungano le fotografie aeree prese a partire dal 4 aprile 1944.  A più riprese, tuttavia, il governo americano rifiuta qualsiasi azione concreta, quale il bombardamento delle strade ferrate che con­ducono ad Auschwitz, mentre nello stesso momento, nel campo, tra il maggio e il novembre 1944, mezzo milione di ebrei, quattrocentoquarantamíla dei quali ungheresi, vengono assassinati. Dal canto loro, gli in­glesi, in due occasioni, respingono trattative di sal­vataggio: nel marzo 1943, a proposito di sessantami­la ebrei bulgari; nel giugno 1944, a proposito di un milione di ebrei ungheresi.

A parte il monito rivolto alla Germania il 17 di­cembre 1942, i dirigenti anglosassoni reagirono poco. Temevano di dare adito alla tesi tedesca secondo cui la guerra degli Alleati era una «guerra ebraica»? Tenne­ro in considerazione l'antisemitismo di fondo preva­lente nell'opinione pubblica? Oppure intendevano la­sciar chiuse le porte della Palestina e degli Stati Uniti?

I sovietici, primi testimoni oculari della catastrofe ebraica, rompono il loro silenzio solo due volte e sem­pre con un secondo fine (assicurarsi l'appoggio dell'ebraismo americano e degli Alleati). Quando fa ri­ferimento alle nazionalità vittime dei massacri, il go­verno staliniano le cita tutte ma omette sempre quella ebraica (gli ebrei, in Urss, vengono considerati rappre­sentanti di una nazione).

Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) conosce l'essenziale nella primavera del 1942 e, nell'ot­tobre dello stesso anno, opta per un'«azione discreta». Essa non dà risultati degni di nota. L'organizzazione di Ginevra è stata forse incapace, malgrado le pesanti informazioni a sua disposizione, di rendersi conto del­le esatte dimensioni del disastro in corso. Altri fattori hanno contribuito a questa prudenza, a cominciare dal ruolo economico essenziale della Svizzera nei confron­ti della Germania hitleriana. Ora, grazie ai suoi con­soli, cosí come attraverso la testimonianza di uomini d'affari tedeschi, la Svizzera è al corrente dei fatti es­senziali già a partire dalla fine del 1941, ma mantiene il silenzio e chiude le proprie frontiere in maniera an­cora piú ermetica. Probabilmente, anche il Vaticano sapeva come stavano le cose fin dai primi grandi mas­sacri del 1941. Ma Pio xii tace fino alla fine. Solo una volta, nel messaggio di Natale del 1942, allude alle cen­tinaia di migliaia di vittime... «condannate a morte o a un lento deperimento [...] qualche volta solo per la loro nazionalità o per la loro razza». Si rifiutava di de­nunciare, diceva, «atrocità particolari» e non poteva parlare dei nazisti «senza citare nello stesso tempo i bolscevichi».

 

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